Filosofia e diritti animali

Sezione: Racconti

FILOSOFIA E DIRITTI ANIMALI
Breve excursus sugli ultimi 10.000 anni di riflessione sugli animali

Massimo Filippi

Che certo s’estimar materia frale / della retta ragion mi si consente / l’io del topo del can, d’altro mortale / che pensa e senti manifestamente, / perchè non possa il nostro esser cotale / non veggo: se non pensa in ver né sente / il topo o il can, di dubitar concesso / m’è del sentire e del pensare mio stesso.
Giacomo Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia.

Chi ben comincia non è a metà dell’opera

L’origine del rapporto uomo/animale si perde, ovviamente, nella notte dei tempi e così la riflessione umana sul mondo animale. Tuttavia, poiché l’uomo è un animale, la natura del rapporto iniziale è stata verosimilmente “naturale” del tipo “predatore/preda” (Barbara Ehrenreich pensa che molte delle nostre attuali pratiche sanguinarie originino in effetti dalla nostra paura ancestrale derivata dalla nostra condizione di prede) o del tipo “amicale/empatico”. Entrambe queste modalità di rapporto sono mirabilmente riassunte, ad esempio, nei dipinti di Lescaux o negli aspetti totemici delle civiltà ‘primitive’, che indicano come l’inizio del rapporto uomo/animale, ancorchè conflittuale, non fosse certamente basato sulla drammatica e netta divisione tra uomini, potenzialmente portatori di diritti da una parte ed animali, ridotti a cose, dall’altra, divisione che ancora oggi permette lo sfruttamento di decine di miliardi di animali all’anno per scopi alimentari, di ricerca scientifica o puramente ludico-voluttuari. Leggendo la Saga di Gilgamesh, quando Gilgamesh piange, disperato, la morte dell’amico Enkidu, sorta di chimera uomo/animale, si capisce che in origine l’approccio al rapporto uomo/animale doveva essere molto diverso dall’attuale e basato, quanto meno, sul rispetto:
“«Enkidu, amico mio, mulo imbizzarrito, asino selvatico delle montagne, leopardo della steppa,
noi dopo esserci incontrati, abbiamo scalato assieme la montagna […]
ed ora qual è il sonno che si è impadronito di te? […]»
Allora ricopre la faccia del suo amico come quella di una sposa;
come un’aquila comincia a volteggiare intorno a lui;
come una leonessa, i cui cuccioli sono stati presi in trappola,
egli va avanti e indietro […]”.
E lo stesso dicasi per l’antico Egitto: Erodoto ci ricorda che “tutti gli animali che si trovano in Egitto sono ritenuti sacri, sia quelli che vivono con gli uomini sia quelli che non ci vivono”. Il diverso rapporto dell’Antico Egitto con gli animali è anche testimoniato dalla descrizione che altre tradizioni forniscono della condizione animale in questa cultura:

“I sacrifici che noi offriamo al Signore Iddio nostro Yahvé sono cosa abominevole per gli egiziani” (Esodo 8, 22).

I vostri costumi e le vostre leggi non hanno niente in comune con i nostri. Tu adori il bue; io lo sacrifico agli dei; l’anguilla è per te una grande divinità; per noi è un fine bocconcino. Tu non mangi il maiale e io ne faccio un bel pranzo. Tu veneri il cane e io lo bastono per bene […] Quando tu vedi un gatto malato, ti metti a piangere, io invece provo il più gran piacere nell’ucciderlo e nello scorticarlo”. (Anassandride, Poleis, frammento 28).

La vera bontà dell’uomo si può manifestare in tutta purezza e libertà solo nei confronti di chi non rappresenta alcuna forza. Il vero esame morale dell’umanità, l’esame fondamentale (posto così in profondità da sfuggire il nostro sguardo) è il rapporto con coloro che sono alla sua mercé: gli animali. E qui sta il fondamentale fallimento dell’uomo, tanto fondamentale che da esso derivano tutti gli altri. Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere.

La tradizione occidentale “ortodossa”: i due mondi si separano

Le cose cambiano drammaticamente quando, verosimilmente a seguito del passaggio dalla fase nomadica dell’umanità a quella stanziale, basata sull’agricoltura e sull’allevamento, l’uomo deve sancire il suo diritto di sfruttamento su tutti gli altri esseri viventi e, pertanto, elabora una serie di visioni del mondo basate su una rigida divisione tra mondo umano (“culturale”) e mondo animale (“naturale”), che, purtroppo, perdurano a tuttoggi, improntando in una sorta di pensiero implicito il nostro modo di guardare agli animali non-umani. Ecco una breve rassegna tratta dalle maggiori tradizioni occidentali:

Il pensiero ebraico-cristiano: “Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite la terra, e incutete paura e terrore a tutti gli animali della terra e a tutti gli uccelli del cielo […] Tutto ciò che si muove e che ha vita vi sarà di cibo”. (Genesi IX, 1-5).

Il pensiero aristotelico: “Infatti dove non vi è nulla di comune tra il comandante e il comandato non v’è amicizia, non essendovi neppure giustizia, bensì vi sono rapporti quali quello dell’artista verso il suo strumento, quello dell’anima verso il corpo, quello del padrone verso lo schiavo […] E neppure vi è verso un cavallo o un bue, né verso uno schiavo, in quanto schiavo. Nulla infatti vi è di comune tra il padrone e lo schiavo; infatti il servo è uno strumento dotato di anima”. (Etica Nicomachea).

“Le piante sono fatte per gli animali e gli animali per l’uomo, quelli domestici perché ne usi e se ne nutra, quelli selvatici, se non tutti, almeno la maggior parte, perché se ne nutra e se ne serva per gli altri bisogni […] Se dunque la natura niente fa né imperfetto né invano, di necessità è per l’uomo che li ha fatti, tutti quanti. Perciò anche l’arte bellica sarà per natura in un certo senso arte di acquisizione – e infatti l’arte della caccia ne è una parte – e si deve praticare contro le bestie e contro gli uomini che, nati per obbedire, si rifiutano, giacchè per natura tale guerra è giusta”. (Politica)

Il pensiero romano: “Che funzione hanno le pecore se non quella di permettere agli uomini di rivestirsi dei loro velli, lavorati ed intessuti? […] E che dire dei buoi? La stessa conformazione del dorso risulta inadatta a sostenere pesi, ma il collo appare nato proprio per reggere il giogo e gli omeri ampi e vigorosi per trascinare l’aratro […] Quanto al maiale non serve ad altro che a fornir carne da mangiare […]”. (Cicerone, De Natura deorum).

Il pensiero stoico: “[…] ci sarà nelle bestie un certo bene, una certa virtù, una certa perfezione; ma questo bene, questa virtù, questa perfezione non sono assoluti. L’assoluto è prerogativa dell’essere ragionevole, a cui è concesso sapere perché, entro quali limiti e in che modo bisogna agire. Così il bene non esiste se non nell’essere fornito di ragione”. (Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio). Il rappresentante più “lucido” del pensiero stoico è, tuttavia, Crisippo, che, come riporta Porfirio, così interpreta la ragione d’esistere degli animali: “I cavalli per fare la guerra, i cani per fare la guardia a noi, le pantere, gli orsi, i leoni per farci esercitare il coraggio. Quanto al maiale […] non fu generato che per essere ucciso, e la divinità mischiò al corpo la sua anima come sale, studiando di offrirci un’ottima vivanda. Perché noi avessimo abbastanza di brodi e contorni ci ha foggiato ostriche di vario genere e conchiglie di porpora e vari generi alati”.

E’ interessante notare come tutte queste prospettive vedano la natura in genere e gli animali in particolare come semplici mezzi al servizio dell’uomo e come si affacci quella che sarà una tendenza collaudata nell’usare una metaforologia animale per vilipendere altri gruppi umani (dagli indiani d’America, agli africani, agli ebrei, ecc.) al fine di rendere più facile il loro asservimento come schiavi o la loro eliminazione in guerra. In genere, gli esseri viventi sono organizzati lungo una scala gerarchica alla cui cima stanno coloro che scrivono (di volta in volta, ateniesi, romani, i bianchi, i bianchi nordici, i tedeschi o gli americani), ma alla fine, dopo ebrei, zingari, poveri, handicappati e migranti, stanno invariabilmente gli animali non-umani. Come dice Milan Kundera è molto probabile che la Bibbia sia stata scritta da uomini e non da buoi o cavalli e lo stesso può essere detto per molti altri testi “sacri”, che utilizzano la presunta divisione invalicabile uomo/animale come fondamento teorico per la costruzione di una società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (classismo, razzismo e sessismo) e dell’uomo sugli animali (specismo). Anche i famosi processi medioevali agli animali (per esempio, nel 1394, a Mortaign, un maiale fu impiccato, dopo regolare processo, per aver mangiato un’ostia consacrata e ad un altro, accusato di infanticidio, la corte riconobbe l’aggravante di aver mangiato il bambino di venerdì, tradizionalmente giorno di digiuno!) avevano il valore di mostrare la solidità del potere costituito e la sua capacità di estendere ad ogni livello della scala gerarchica la sua forza repressiva e di controllo. Il passo della Politica di Aristotele, in questo senso, è semplicemente magistrale, giungendo, ben prima di altri, sulla base di una interpretazione rigida della scala degli esseri, a sua volta basata sulla netta separazione uomo/animale, alla teorizzazione della “guerra giusta”!
A questa logica non sfugge completamente neppure Platone che, pur essendo vegetariano e pur iscivendosi nella nobile tradizione “animalista” greca che va da Pitagora a Plutarco, subisce tuttavia il “fascino” della scala degli esseri:

“E gli animali pedestri e selvaggi sono nati dagli uomini che niente si giovano della filosofia e non contemplano affatto la natura del cielo […] Dunque per queste abitudini curvarono a terra le membra anteriori e la testa, attratte dalla parentela con la terra […] E per questa ragione la loro specie nacque con quattro o molti piedi, sottoponendo dio ai più stolti più sostegni, affinchè fossero tirati di più a terra. E quelli di loro che sono più stolti e che distendono tutto il corpo a terra, gli dei li generarono senza piedi e striscianti in terra […] La quarta specie, ch’è l’acquatica, deriva dai più stolti e ignoranti di tutti, che gli dei […] non crederono nemmeno degni della respirazione pura […]” e “li spinsero nella torbida e cupa respirazione dell’acqua”. (Platone, Timeo).

Questo, comunque, non toglie completamente a Platone la capacità di immaginare un passato mitico ed un futuro utopico diversi:

Il passato: “[Allora gli uomini] avevano così grande disponibilità di tempo e potere di stabilire relazioni e conversazioni non solo fra uomini, ma anche con le bestie, facevano uso di tutte queste condizioni in funzione della filosofia, discorrendo appunto fra loro e con gli altri animali ed interrogando tutte le specie animate per sapere se una ve ne fosse che per una sua particolare capacità avesse mai potuto conoscere qualche cosa a tutto superiore nel procurare grande apporto al tesoro dell’intelligenza. E’ facile giudizio dire che quelli di allora incommensurabilmente eccellevano per felicità sugli uomini di ora”. (Politico).

Il futuro: “[Gli uomini del nuovo ordine] si nutriranno di farine ricavate dall’orzo e dal frumento […] e serviranno belle focacce e pani su canne e foglie pulite […] banchetteranno bene in compagnia […] lieti di stare insieme. E non metteranno al mondo più figli di quanto consentano i mezzi di vita, per timore della povertà e della guerra […] Dovranno avere sale, olive, formaggio, e si cuoceranno alimenti propri della campagna, cipolle e legumi. Serviranno loro […] anche pasticcini di fichi, ceci e fave […] Così passeranno la vita in pace ed in buona salute, moriranno in tarda età e trasmetteranno ai discendenti un sistema di vita simile a questo”. (Repubblica).

Passa il tempo e le cose non migliorano

Stabilitene le basi, la divisione tra uomo ed animali nelle tradizioni occidentali più gerarchiche (e quindi più ostili a chi sta in fondo alla scala degli esseri) non farà che continuare ad allargarsi col passare del tempo. Gli animali vengono rapidamente privati di tutto, della capacità di comunicare, del pensiero, dell’anima, della vita immortale, degli affetti, delle emozioni, e perfino della capacità di provare dolore (Malebranche). Mentre ci si dovrebbe chiedere se un essere privo dell’anima ed incapace di pensiero e quindi incapace di giustificare in qualunque modo una vita di dolore, deprivazioni e senza possibilità di redenzione non dovrebbe, proprio per questo, vivere al meglio l’unica vita che gli è data, ci si affanna invece a cercare giustificazioni per ogni tipo di sfruttamento degli animali. Incluso il fatto che non possano provare dolore, appunto! Quattro passi nel delirio:

“Continuate a mangiare ogni cosa che si vende al macello senza informarvi a motivo della vostra coscienza; poiché «a Dio appartiene la terra e tutto ciò che la riempie». Se qualcuno dei pagani vi invita e desiderate andarvi, mangiate di ogni cosa che vi è posta davanti […]” (San Paolo, Lettera ai Corinti).

“Nessuno pecca per il fatto che si serve di un essere per lo scopo per cui è stato creato. Ora, nella gerarchia degli esseri quelli meno perfetti son fatti per quelli più perfetti […] Perciò se l’uomo si serve delle piante per gli animali e degli animali per gli uomini, non c’è niente di illecito […] E il più necessario dei servizi è appunto quello di dare le piante in cibo agli animali, e gli animali agli uomini […] Chi uccide il bove di un altro non pecca perché uccide un bove, ma perché danneggia un uomo nei suoi averi”. (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae).

“So che gli animali fanno molte cose meglio di noi, ma questo non mi sorprende. Si può citare questo esempio persino per provare che essi agiscono naturalmente e meccanicamente, come un orologio che segna il tempo meglio di quanto faccia il nostro giudizio. Senza dubbio quando le rondini arrivano in primavera, agiscono come orologi. Le azioni delle api sono della stessa natura, come la disciplina delle gru in volo, e delle scimmie in lotta […].” (René Descartes, Lettera alla Marchesa di Newcastle).

“Non nego, tuttavia, che i bruti sentano; ma nego che per questo non sia lecito provvedere alla nostra utilità e servirci di essi a piacere e trattarli come più ci conviene […]”. (Baruch Spinoza, Ethica more geometrico demonstrata).

Riassumendo, Cartesio, erede della “grande” tradizione aristotelico-tomistico-paolina, parla di “bestie-automi”, che diventano per Malebranche “bestie-orologi con tubi sonori” (Malebranche argomenta che se Dio esiste non può far soffrire delle creature innocenti non coinvolte nel peccato originale. Dunque, poiché è certo che Dio esiste, gli animali non possono avere capacità di soffrire) e poi “bestie-diavoli” per il gesuita Bougeant (Bougeant argomenta che poiché è indubitabile che Dio esista e poiché è altrettanto indubitabile che Dio non farebbe soffrire degli innocenti, ne consegue necessariamente che gli animali siano in realtà ricettacoli dei demoni in attesa del giudizio universale. Pertanto, non solo noi non abbiamo alcun dovere nei loro confronti, ma addirittura è un dovere di fede il farli soffrire!). Spinoza chiude il cerchio sostenendo che anche se gli animali soffrono, a noi, in fondo, non deve interessare granchè.
Solo parzialmente più sfumata appare la visione marxiana degli animali. La dottrina marxiana classica, discendendo dalla dialettica hegeliana (“L’uomo si distingue dall’animale perché sa di sé stesso. Egli è pensante”. Gottfried Friedrich Hegel, Filosofia della natura), non si discosta molto da questa nel giudizio essenzialmente negativo sugli animali e porta a delle conseguenze pratiche non dissimili da quelle della tradizione “borghese”, che, per altri versi, si prefiggeva di rovesciare. La situazione è diversa per alcuni socialisti rivoluzionari, tipo Rosa Luxemburg e, successivamente, per la Scuola di Francoforte, ma queste posizioni non hanno modificato significativamente l’atteggiamento generale verso gli animali di chi si rifà al marxismo classico. In altre parole, la liberazione dallo sfruttamento non potrà mai superare l’invalicabile barriera biologica della specie dominante Homo Sapiens Sapiens:

“L’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza”. (Karl Marx, Manoscritto economico-politico del 1844).

“L’animale arriva al massimo a raccogliere: l’uomo produce, allestisce i mezzi necessari all’esistenza nel senso più vasto della parola, che la natura senza di esso non avrebbe prodotto. Ciò impedisce di trasferire, così senz’altro, leggi che regolano la vita delle società animali alla società umana.” (Friedrich Engels, Dialettica della natura).

E’ interessante notare che lo scritto di Engels si riferisce alle leggi evoluzionistiche di Darwin: l’uomo è così diverso dall’animale da non sottostare neppure alle leggi scientifiche! Nonostante sia Marx che Engels salutino positivamente la teoria darwiniana, in quanto incrina le posizioni creazioniste dei loro avversari, essi pongono subito in chiaro che una cosa sono gli animali (per i quali va bene l’evoluzione darwiniana) ed un’altra gli uomini (per i quali valgono le leggi del materialismo storico).
Da questa breve rassegna, è interessante notare inoltre che qualunque sia il punto di partenza, cristiano, meccanicista-scientista o marxiano, il risultato, per chi resta nel solco dell’ortodossia tradizionalista di ciascuna di queste visioni del mondo, è sempre identico: netta ed ingiustificata separazione tra animali umani ed animali non-umani. E la situazione non è nettamente migliore se si guardano gli animali da una prospettiva islamica (“Mangiate di ciò su cui è stato invocato il nome di Dio […] Egli è Colui che ha prodotto giardini […] Mangiatene i frutti quando fruttificano […] Ha pure prodotto animali da carico e non da carico. Mangiate ciò di cui Iddio vi ha provveduti”. Sura VI, Del Bestiame). Non sorprenderanno a questo punto le attuali posizioni sia della Chiesa (che continua a guardare con ostilità sia i vegetariani che gli antivivisezionisti – ” […] non mancano tuttavie “campagne” propagandistiche che la Chiesa non può approvare, quella ad esempio contro gli esperimenti di ordine scientifico su animali vivi”. L’Osservatore Romano, 13 marzo 1966) sia dei partiti/apparati di stampo marxista (che tranquillamente continuano ad organizzare le loro feste a base di salamelle, fingendo di dimenticare, in onore del credo anti-animalista, che è la dieta carnea del Nord ricco la principale causa di morte per fame e denutrizione nel Sud del mondo!). I due esempi sottoriportati dimostrano come sul tema dei diritti animali in questi due ambiti di pensiero poco o nulla si sia modificato dalle loro rispettive origini ad oggi:

“Non soltanto in sede psicologica e psicoanalitica è facile osservare come, frequentemente, persone che si dichiarano rigorosamente vegetariane e che guardano con orrore al consumo alimentare di qualunque tipo di carne animale, si rivelino straordinariamente violente […] Sono rissose, vengono alle mani, picchiano i bambini, sono preda di improvvise crisi di rabbia aggressiva […] Sembrano inoltre gradevolmente affascinate da spettacoli di violenza e di morte” (S. Gindro, Studi Cattolici, luglio 1993).

(Ecco un breve elenco di vegetariani famosi: Ippocrate, Gandhi, Darwin, Einstein, Freud, Galileo, Kafka, Leonardo da Vinci, Martin Luther King, Newton, Pascal, Pitagora, Platone, Rousseau, Seneca, Shaw, Tolstoj, Voltaire, Wagner… tutti, noti, ovviamente per aver picchiato bambini! Qualcuno potrebbe chiedersi come mai manchi Hitler in questa lista. La risposta è semplice: perché Hitler non era vegetariano. Il presunto vegetarianismo di Hitler è parte della propaganda di Göbbels per sostenere un suo presunto ascetismo divino, poi ripresa acriticamente da chi vuole screditare con argomenti volgari la scelta vegetariana. Nessuno ricorda che, subito dopo la sua ascesa, Hitler ha reso illegali tutte le società vegetariane tedesche e ha perseguitato i suoi esponenti).

“E poi ci sono le immagini degli animali nelle fattorie e nei laboratori, forniteci dagli animalisti con le sofferenze antropomorfizzate delle cavie e dei macelli”. (Marco D’Eramo, il manifesto, 2 luglio 2002).

Visto che entrambi gli articoli sono stati scritti in luglio, l’unico commento possibile è pensare agli effetti deleteri del caldo sulla psiche umana.

L’erba del vicino è proprio più verde

La divisione uomo/animale non è caratteristica esclusiva della tradizione occidentale, ma è riscontrabile anche in altre culture. Quello che colpisce, tuttavia, è che le altre culture non hanno creato una barriera invalicabile sulla base di questa antitesi, ma piuttosto una sorta di membrana permeabile. Certo, anche la maggioranza delle altre culture presenta aspetti più o meno gravi di sfruttamento degli animali (per esempio, la caccia o il sacrificio rituale), ma nessuna come quella occidentale ha cercato in modo così spudorato di giustificare la propria prevaricazione, fino a condannare anche il vegetarianismo:

“Se qualcuno, perché giudica immonde le carni che Dio ha donato all’uomo per nutrirsi, e non perché desidera mortificarsi, si astiene dal mangiare queste carni, su di lui anatema”. (Concilio di Braga, 577).

Attualmente, all’anatema religioso si è sostituito quello medico che, negando le sue stesse evidenze (la carne, ed in particolar modo la “carne moderna”, produce malattia piuttosto che ridurne l’incidenza, dall’infarto, all’ictus, dal tumore intestinale al diabete, alla variante atipica della malattia di Creutzfeldt-Jakob [popolarmente, la variante umana del morbo della mucca pazza], ecc.), prescrive incondizionatamente la necessità della dieta carnea. A differenza della nostra, le altre tradizioni hanno, al contrario, percepito la gravità dell’azione dell’uccidere gli animali non umani e, di conseguenza, hanno inventato riti e cerimonie al fine di rendere più giustificabile la loro violenza nei confronti di altre creature ed al fine di operare una riconciliazione tra i due mondi. Ecco un rapido repertorio di ciò che si pensa (o forse, purtroppo, si pensava) appena fuori le mura della fortezza occidentale:

“Noi sappiamo ciò che fanno gli animali, quali siano i bisogni del castoro, dell’orso, del salmone e delle altre creature, perché, una volta, gli uomini si sposavano con loro e quindi hanno ricevuto questo sapere dalle loro spose animali” (parole di un gruppo di nativi americani riportate ne Il pensiero selvaggio di Claude Levi-Strauss).

“Nessuna cosa che respira, nessuna cosa che esiste, nessun essere di qualsiasi specie può essere ucciso, trattato con violenza, insultato, torturato o respinto. Questa è la pura legge, immutabile ed eterna, proclamata dai saggi che conoscono il mondo, per chi riflette e per chi non riflette”. (dal primo Anga, testo sacro della religione indiana giaina).

“La tua propria madre, la tua propria sorella, i tuoi propri porci, i tuoi propri ignami che tu hai ammucchiato, tu non li puoi mangiare” (detto degli Arapesh della Nuova Guinea).

E’ bene ricordare che la visione del mondo di queste ed altre culture extra-occidentali non è oggi minoritaria perché sconfitta sul piano delle argomentazioni, ma bensì perché le culture altre, come afferma con dovizia di dati Jared Diamond, sono state eliminate con la forza delle armi, dell’acciaio e delle malattie.

Si torna a casa: le voci fuori dal coro

Anche se la vicenda della mucca pazza ci ha drammaticamente insegnato che non esistono ferree barriere di specie, la nostra visione del mondo è ancora radicata su tale distinzione. Tuttavia, fin dagli albori del pensiero occidentale, a fianco della tradizione riassunta in precedenza, esiste una tradizione che riconosce con risolutezza il continuum tra uomo ed animale e l’esigenza di riconoscere agli animali dei diritti o, quanto meno, del rispetto. Questa tradizione non è minoritaria perché sostenuta da autori ‘minori’ (con argomentazioni meno convincenti dei pensatori che hanno stabilito il canone) ma perché, solitamente, chi sostiene il diritto in generale ed i diritti dei più deboli in particolare non ama sostenere le proprie tesi con la forza delle armi e dei roghi.
Tra le posizioni più frequentemente riscontrabili in filosofi di tempi diversi e con differenti sostrati culturali troviamo quello secondo cui animali umani ed animali non umani condividono la stessa natura e medesimi comportamenti:

“Noi siamo stati discepoli delle bestie nelle arti più importanti: del ragno nel tessere e rammendare, della rondine nel costruire case, degli uccelli canterini, del cigno e dell’usignolo nel canto, con l’imitazione”. (Democrito, I Presocratici, B 154).

Similmente riteniamo che tutti gli uomini, ma anche tutti gli animali sono della stessa razza, perché i principi dei loro corpi sono per natura gli stessi […], e ancor più perché l’anima che è in loro non è diversa per natura in rapporto agli appettiti, ai movimenti di collera, ai ragionamenti e soprattutto alle sensazioni”. (Teofrasto, Della Pietà).

“Quanto alle caratteristiche dell’anima, considera se esse non siano tutte simili; e innanzitutto la sensazione. L’uomo in effetti percepisce i sapori col gusto, i colori con la vista, gli odori con l’odorato, il suo udito percepisce i rumori, il suo tocco il caldo, il freddo e le altre sensazioni tattili; e tutti gli animali fanno lo stesso. Gli animali non sono privi della sensibilità per il fatto che non sono uomini e non sono sprovvisti della ragione per questo fatto: perché allora gli dei sarebbero anch’essi privi della ragione per il fatto che non sono uomini, oppure lo saremmo noi, se è vero che gli dei sono dotati di ragione”. (Porfirio, De Abstinentia).

“La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si vede collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo, attaccata e inchiodata alla peggiore, alla più morta e putrida parte dell’universo […] e con l’immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna […] E’ per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si eguaglia a Dio, […] che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che più gli piace”. (Michel de Montaigne, Saggi).

“Quella dell’uomo [anima] è medesima in essenza specifica e generica con quella de le mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trova animata o abbia anima […] Quindi possete capire esser possibile che molti animali possono aver più ingegno e molto maggior lume d’intelletto che l’uomo”. (Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo).

Forse è perché io ti parlo, che tu giudichi ch’io abbia il sentimento, la memoria, delle idee? Ebbene! Non ti parlerò: tu mi vedrai rincasare con aria afflitta, cercare una carta con inquietudine, aprire l’armadio dove mi ricordo di averla rinchiusa, trovarla, leggerla con gioia. E tu ne deduci che io ho provato il sentimento della afflizione e quello del piacere, che ho memoria e conoscenza. Giudica dunque allo stesso modo questo cane, che non trova il suo padrone, che lo ha cercato per tutte le vie con grida dolorose, che rincasa inquieto ed agitato, sale, scende, va di stanza in stanza, trova infine nel suo studio il padrone che egli ama, e gli testimonia la propria gioia con la dolcezza del suo mugolio, coi salti e le carezze. I barbari uomini prendono questo cane che suol vincerli così facilmente nell’amicizia: lo inchiodano su una tavola, e lo sezionano vivo per mostrarti le vene mesenteriche. Tu scopri in lui gli stessi organi di sentimento che sono in te. Rispondimi, o meccanicista, la natura ha dunque combinato in lui tutte le molle del sentimento affinchè egli non senta? Il cane ha dei nervi per essere impassibile? Non fare più di queste balorde supposizioni. (Francoise-Marie Voltaire, Dizionario filosofico).

“[…] un essere dalla struttura simile alla nostra, che compie le stesse operazioni, che prova le stesse passioni, gli stessi dolori, gli stessi piaceri […]: un simile essere non ci mostra forse chiaramente di sentire i suoi torti ed i nostri, di conoscere il bene ed il male, insomma di avere coscienza di ciò che fa?”. (Julien Offroy de La Mettrie, L’uomo macchina).

“Gli animali mangiano, bevono, vedono, sentono, annusano e hanno gli stessi organi di senso degli uomini; il sangue circola nelle loro vene come nelle nostre; essi si incattiviscono, provano la sete, la fame e la stanchezza, esattamente come noi; l’uomo ha le loro stesse passioni e i loro medesimi bisogni. […] Nessuna creatura è insignificante, ma, fino che ha vita ha diritto alla felicità. Privarla di essa è un’ingiustizia”. (Humphry Primatt, Dissertazione sul dovere di pietà e il peccato di crudeltà nei confronti degli animali).

“Subito dopo il ridicolo di negare una verità evidente, c’è quello di darsi molta pena per difenderla, e nessuna verità appare più evidente di questa: gli animali sono dotati di pensiero e di ragione come gli uomini […] Ci rendiamo conto che noi stessi, adattando i mezzi ai fini, siamo guidati dalla ragione e dall’intento, e che non dell’ignoranza né a caso compiamo quelle azioni che tendono alla nostra conservazione, a ottenere piacere e a evitare il dolore. Quando perciò vediamo altre creature, in milioni di casi, compiere le stesse azioni e dirigerle agli stessi fini, tutti i nostri principi di ragione e di probabilità ci portano con forza invincibile a credere nell’esistenza di una simile causa”. (David Hume, Trattato sulla natura umana).

“Nascere, vivere e morire è un puro cambiamento di forme. E che cosa importa l’una o l’altra forma? […] Dall’elefante alla pulce, e dalla pulce alla molecola sensibile e vivente, che costituisce l’origine di ogni cosa, non c’è un punto in tutta la natura che non soffra o non goda”. (Denise Diderot, Opere complete).

E’ interessante notare che almeno Voltaire e Hume introducono con risolutezza anche per la questione animale il concetto che per definire scientificamente la natura di un dato fenomeno, a parità di altre caratteristiche, si deve ricorrere alla spiegazione che richiede il minor numero di assunti. Questo principio, noto come “il rasoio di Occam”, è la base di tutta la scienza moderna, eccezion fatta per quella che valuta il comportamento animale, per il quale il solo pensiero di interpretarlo, come suggeriscono Voltaire e Hume, sulla base della valutazione di analoghi comportamenti umani, introduce l’infamante accusa di “antropomorfismo”! A questa visione di un’unica natura tra uomini ed animali, non può non affiancarsi il rifiuto della dieta carnea e dei sacrifici animali (val la pena di ricordare che il termine religioso di “sacrificio” è tuttora utilizzato nella pratica “scientifica” vivisettoria?):

“[Pitagora] tanto aborriva da uccisioni e uccisori che non solo si asteneva dal mangiare esseri viventi, ma neppure si accostava a macellai e cacciatori”. (Diogene Laerzio, I Pitagorici).

“E’ una grande vergogna spargere il sangue e divorare le belle membra di animali ai quali è stata violentemente tolta la vita”. (Empedocle, Poema fisico e lustrale).

“Sono i demoni a gradire l’odore della carne che ingrassa la parte pneumatica e del loro essere. Tale loro parte vive di vapori e di esalazioni […] essa trae forza dai vapori che salgono dal sangue caldo e dalle carni bruciate” (Oracoli Caldei).

“Io mi domando con stupore in quale circostanza e con quale disposizione spirituale l’uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto; e imbandendo le mense di corpi morti e corrotti, diede altresì il nome di manicaretti e di delicatezze a quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muoveveno e vivevano. Come potè la vista tollerare il sangue di creature sgozzate, scorticate, smembrate, come riuscì l’olfatto a sopportarne il fetore? Come mai quella lordura non stornò il senso del gusto, che veniva a contatto con le piaghe di altre creature e che sorbiva umori e sieri essudati da ferite mortali?”. (Plutarco, Del mangiare carne).

“Non mentirai, non ammazzerai nemmeno vitelli”. (Dalla formula di iniziazione catara).

Alla stessa visione appartiene anche il riconoscimento che il mondo e le sue creature non sono fatte per servire l’uomo:

“Le cose che noi vediamo non sono state donate all’uomo, ma ciascuna nasce e perisce per il bene del tutto”. (Celso, Alethès Lògos).

“Questo mondo sensibile […] è quasi un libro scritto dal dito di Dio, cioè creato dalla virtù divina, e le singole creature sono come figure, non inventate dall’arbitrio dell’uomo, ma istituite dalla volontà divina per manifestare la sapienza invisibile di Dio”. (Ugo di San Vittore, Eruditio didascalica).

Al riconoscimento della non strumentalità del mondo, non può non seguire la critica sferzante del modo di concepire opposto, che porta da un lato, ad evidenziare quel filo rosso (di sangue) che collega sfruttamento animale a sfruttamento umano e, dall’altro, a definire l’uomo come “animale mancato” (Nietzsche):

“Egli intuiva che l’uomo abituato a versare, senza la minima provocazione, il sangue d’una bestia innocua, non avrebbe esitato, in balia della collera e sotto lo stimolo della provocazione, a sopprimere il suo simile. Ancora un passo e siamo alla guerra. […] Ma questo genere di riflessioni muove a riso e a scherno gli stolidi personaggi che stanno oggi al vertice”. (Erasmo da Rotterdam, Adagia).

“Le sragionevolezze umane, a chi le esamini con gli occhi della ragione, fanno ben presto dileguare la superiorità che, tanto arbitrariamente, l’uomo si arroga sugli altri animali. […] Si son mai viste delle bestie feroci della stessa specie darsi appuntamento nelle pianure per sbranarsi ed annientarsi senza alcun vantaggio? Si sono viste scoppiare guerre di religione tra gli animali? La crudeltà degli animali contro quelli appartenenti ad altre specie ha per motivo la fame, il bisogno di nutrimento; la crudeltà dell’uomo contro l’uomo ha per unico motivo la vanità dei suoi capi e la follia dei suoi assurdi pregiudizi”. (Paul-Henry Thiry D’Holbach, Il buon senso).

“Per non distruggerla, l’uomo deve mostrare bontà di cuore già verso gli animali perché chi usa essere crudele verso di essi è altrettanto insensibile verso gli uomini. Si può conoscere il cuore di un uomo già dal modo in cui egli tratta le bestie”. (Immanuel Kant, Lezioni di etica).

“Non hai saputo mai quello ch’erano gli uomini […] Era una sorta di bestie da quattro zampe come siamo noi altri, ma stavano ritti e camminavano con due sole come fanno gli uccelli, e coll’altre due si aiutavano a strapazzare la gente […] Credevano poi che il mondo fosse fatto per loro […] e mangiavano gli altri animali”. (Giacomo Leopardi, Dialogo di un cavallo e di un bue).

“Temo che gli animali vedano nell’uomo un essere loro uguale che ha perduto in maniera estremamente pericolosa il sano intelletto animale: vedono cioè in lui l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice”. (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza).

“Noi siamo fieri del progredire della nostra civiltà, esaminiamo con soddisfazione ciò che consideriamo come suoi successi in tutte le branche della vita sociale, ma osserviamo pure che la nostra esistenza è spesso fondata sui principi più ingiusti e crudeli, e che l’umanità dell’avvenire ne parlerà con la stessa ripugnanza che noi proviamo oggi per la schiavitù e la tortura, come errori di altri tempi, che la civiltà ha abolito”. (Lev Nikolaevi? Tolstoj, Contro la caccia).

“L’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo […] Essa è ammessa anche oggi. I behavioristi se ne sono scordati solo in apparenza. Che essi applichino agli uomini le stesse formule e risultati che essi stessi, liberi da catene, ottengono, nei loro orrendi laboratori fisiologici, da animali indifesi, conferma la differenza in forma particolarmente malvagia. La conclusione che essi traggono dai corpi mutilati degli animali non si adatta all’animale in libertà, ma all’uomo odierno. Egli prova, facendo violenza all’animale, che egli, ed egli solo in tutta la creazione, funziona – liberamente e di sua propria volontà – con la stessa cieca e automatica meccanicità dei guizzi convulsi delle vittime incatenate che il tecnico utilizza ai propri scopi. Il professore alla tavola anatomica li definisce scientificamente riflessi, l’aruspice all’altare li aveva stamburati come segni dei propri dèi. All’uomo appartiene la ragione dal decorso spietato; l’animale, da cui trae le sue illazioni sanguinose, ha solo il terrore irragionevole, l’istinto della fuga, che gli è preclusa”. (Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo).

“La sofferenza, la violenza, la distruzione sono prerogative della realtà sia naturale sia umana, di un universo senza speranza e senza cuore. […] [Il materialismo] riconosce la realtà dell’Inferno in un unico luogo, qui sulla terra, ed afferma che questo Inferno è stato creato dall’uomo (e dalla Natura). Fa parte di esso il maltrattamento degli animali – opera di una società la cui razionalità è ancora irrazionale”. (Herbert Marcuse, L’uomo ad una dimensione).

Val la pena di notare, per inciso, come teorici importanti di formazione marxiana (Horkheimer, Adorno e Marcuse) abbiano ampiamente emendato le iniziali visioni del materialismo storico sulla questione animale, e come non condividano le visioni miopi degli apparati che al marxismo pur si richiamano.

Non pietà, ma giustizia è dovuta all’animale. Arthur Shopenhauer, Parerga e Paralipomena.

La comune percezione del dolore: le basi del cambiamento animalista

La svolta critica dello status degli animali comincia, pertanto, ad assumere un aspetto sistematico con il riconoscimento che tutti i viventi sono accomunati da un comune destino di nascita e di morte e da una comune capacità di provare piacere e, soprattutto, dolore. Questa conquista del buon senso inizia ad assumere importanza a cavallo tra settecento ed ottocento grazie soprattutto all’illuminismo francese ed all’empirismo inglese. Questa svolta decisiva assume dimensione epocale nelle parole di Jeremy Bentham, riportate qui sotto e che costituiscono il crinale tra due modi di pensare gli animali:

[Gli animali] partecipando in qualche modo alla nostra natura per via della sensibilità di cui sono dotati, è da ritenere che debbano anch’essi partecipare al diritto naturale e che l’uomo sia tenuto nei loro riguardi a taluni doveri”. (Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’origine dell’inuguaglianza).

Gli uomini non rinunceranno mai, dunque, alle loro assurde pretese? Non riconosceranno mai che la natura non è minimamente fatta per loro? Non vedranno che la natura ha stabilito un trattamento uguale per tutti gli esseri viventi che sono ugualmente fatti per nascere e per morire, per gioire e per soffrire?” (Paul-Henry Thiry D’Holbach, Il buon senso).

Verrà il giorno in cui il resto degli esseri animali potrà acquisire quei diritti che non gli sono mai stati negati se non dalla mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è un motivo per cui un essere umano debba essere irrimediabilmente abbandonato ai capricci di un torturatore. Si potrà un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villosità della pelle o la terminazione dell’osso sacro sono motivi ugualmente insufficienti per abbandonare un essere sensibile allo stesso destino! Che altro dovrebbe tracciare la linea invalicabile? La facoltà della ragione, o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone animali più razionali, e più comunicativi, di un bambino di un giorno, o di una settimana, o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? Il problema non è: “Possono ragionare?”, né: “Possono parlare?”, ma: “Possono soffrire?”. (Jeremy Bentham, I principi della morale e della legislazione).

Come si vede, Bentham ha le idee ben chiare e concisamente esprime due concetti fondamentali ancora oggi alla base dell’animalismo: a) esiste un comune senso dell’impudore che lega sessismo, razzismo e specismo: la lotta di liberazione animale è il proseguio naturale della lotta di liberazione degli umani ritenuti, per una qualche ragione, “inferiori” e b) l’unico discrimine di un’etica razionale è la capacità di provare dolore. Tutto questo confluirà, insieme ai concetti elaborati dal liberalismo e dal darwinismo, in quello che, forse, si può definire il testo fondatore dell’animalismo moderno: “Animals’ Rights” di Henry Salt del 1882. E’ interessante notare che Henry Salt non è “semplicemente” un animalista, ma è impegnato a fondo in tutte le principali lotte emancipazioniste del suo tempo (abolizione della pena di morte, riforma carceraria, diritti delle donne e delle minoranze, ecc.) e, pertanto, inquadra la sua esplicita teorizzazione della “liberazione animale” in un più ampio movimento per la rivendicazione dei diritti degli oppressi, che deve essere indipendente dalla razza, sesso e specie di appartenenza.

La svolta scientifico-culturale del Novecento: la linea di confine diventa impalpabile

Nell’Ottocento, Charles Darwin con la famosa teoria dell’evoluzione tramite selezione naturale scardina definitivamente ed in maniera irreversibile la possibilità di porre una qualsiasi barriera biologica tra uomo ed animale, togliendo così ogni possibile giustificazione scientifica alle teorie di stampo specista:

L’uomo nella sua arroganza si crede un’opera grande, meritevole di una creazione divina. Più umile, io credo sia più giusto considerarlo discendente dagli animali”. (Charles Darwin, L’origine dell’uomo).

Nel Novecento, una serie di contributi da vari campi della scienza non fanno che procedere impietosamente all’abbattimento dell’ingannevole castello antropocentrista. Eccone un breve elenco:

La rilettura dell’evoluzionismo darwiniano non come processo progressivo verso il miglioramento delle specie, ma come processo storico necessariamente imperfetto, entropico e casuale;

L’affermazione dell’etologia con il riconoscimento che il comportamento animale non è semplicemente il risultato di istinti geneticamente determinati, fino a parlare in ambito scientifico di “menti animali”;

La nascita dell’ecologia scientifica con il riconoscimento dell’interdipendenza degli esseri viventi;

Le scoperte di paleoantropologia che hanno mostrato l’esistenza di più linee evolutive di tipo ominide.

Gli studi sui primati non umani di Jane Goodal, dei coniugi Gardner, di Richard Fouts e di molti altri che hanno mostrato che gorilla, oranghi e scimpanzé non solo sono intelligenti e capaci di usare strumenti, ma anche capaci di imparare il linguaggio umano – l’inverso non è ancora avvenuto!

Gli studi di biologia molecolare che hanno mostrato che la distanza genetica tra noi e gli scimpanzé (1.6%) è inferiore a quella tra scimpanzé e gorilla ed oranghi (3.6%). Questo anche se non ha portato a vietare l’utilizzo di scimpanzé nella ricerca biomedica, ha portato alla riclassificazione, da parte della scuola cladistica degli scimapanzè in tre specie: lo scimpanzé comune (Homo troglodytes), lo scimpanzé pigmeo (Homo paniscus) e lo scimpanzé umano (Homo sapiens)! Con tre specie oggi esistenti sulla Terra appartenenti al genere Homo, la “favola bella” dell’unicità dell’uomo è da considerarsi definitivamente morta.

Arrivano i nostri

Il progressivo abbattimento della netta linea di separazione tra animali umani e non-umani e la conseguente sostituzione della visione “antropocentrica” del mondo con una visione “biocentrica”, dove l’uomo non è più l’apice della creazione/evoluzione che può disporre a suo piacimento e senza regole di tutto il pianeta e dei suoi abitanti, ma solamente una delle componenti della biosfera (e forse neanche una delle più importanti) hanno ricevuto una definitiva “consacrazione” filosofica tra gli anni settanta ed ottanta del Novecento con la nascita e lo sviluppo di un vero e proprio pensiero animalista. Pensiero animalista che, al di là delle immancabili differenze di posizione tra i vari filosofi e le varie correnti, si basa sul concetto fondamentale che quello che dobbiamo agli animali non-umani non discende da considerazioni di tipo empatico, emotivo od affettivo, ma da considerazioni di giustizia. Val la pena inoltre di ricordare il contributo formidabile alla lotta di liberazione animale fornito in quegli stessi anni da una serie di libri-denuncia non strettamente filosofici, tra cui i più significativi sono quelli di Rachel Carson “Primavera silenziosa” (denuncia ecologista dei danni sull’ambiente e sugli animali non-umani da parte dell’attività umana basata sul profitto industriale), di Ruth Harrison “Macchine animali” (denuncia degli orrori della zootecnia moderna) e di Hans Ruesch “Imperatrice nuda” (denuncia serrata degli orrori della vivisezione). Schematicamente, si possono individuare cinque filoni principali del pensiero animalista in senso stretto, qui di seguito riassunte:

L’utilitarismo di Peter Singer. Singer parte dalle considerazioni di Bentham e Salt, secondo cui ciò che ci accomuna agli animali è la capacità di provare dolore/piacere, inserendole nella prospettiva di una filosofia utilitarista della media, secondo cui è buona un’azione che determina un aumento medio di piacere o una diminuzione media di dolore di tutti coloro che in questa azione (attivamente o passivamente) sono coinvolti. In questa prospettiva, ciò che Singer rivendica è l’eguale considerazione degli interessi di tutti gli agenti e pazienti morali coinvolti in una determinata azione che porta alla sua famosa affermazione: “tutti gli animali sono uguali”. Gli animali non-umani rientrano nel computo generale delle conseguenze dell’agire perché, proprio come noi, sono in grado di provare piacere/dolore e, questo, in una prospettiva non specista, rappresenta una base razionale più fondata che l’appartenenza o meno ad una data specie. Nell’ottica dell’utilitarismo della media, risulta facilmente “calcolabile” la necessità, ad esempio, di non allevare più vitelli per ottenere carni bianche, perché l’enorme sofferenza di queste creature senzienti (distacco dalla madre, immobilità forzata in box ristrettissimi fino alla macellazione, dieta innaturale per mantenere le carni bianche, ecc.) sopravanza di gran lunga il possibile piacere gastronomico che alcuni si compiacciono di provare mangiando queste carni. Tra l’altro, questa visione che abbandona le capacità linguistiche o più strettamente razionali come base della considerazione etica, permette di difendere meglio anche gli interessi di quegli umani, definiti “casi marginali”, che non sono ancora in posseso di quelle facoltà (es. bambini piccoli) o che, per malattia od incidente, queste capacità non hanno mai avuto (es. bambini con gravi menomazioni psichiche) o che, per malattia od incidente, queste capacità hanno perso irrimediabilmente (es. malati di Alzheimer). Ovviamente, uguale considerazione degli interessi non significa uguale trattamento od uguali diritti (un maiale non è per nulla interessato a possedere il diritto di voto, ma è interessato a grufolare liberamente in un prato). Il vantaggio dell’approccio singeriano è quello di fornire una base razionale molto semplice, ma molto robusta ai diritti di tutti gli animali. Il limite maggiore, ovviamente, è che qualora, per qualsivoglia motivo, il bilancio di piacere/dolore dovesse rimanere in media positivo, anche se un determinato individuo o gruppo di individui dovesse risultare notevolmente svantaggiato da una determinata pratica, l’approcio singeriano non prevede vie d’uscita.

“Se un essere soffre, non può esistere nessuna giustificazione morale per rifiutarsi di prendere in considerazione tale sofferenza. Quale che sia la natura dell’essere, il principio di uguaglianza richiede che la sua sofferenza venga valutata quanto l’analoga sofferenza […] di ogni altro essere. Se un essere non è capace di soffrire, o di provare piacere o felicità, non vi è nulla da prendere in considerazione. E’ questa la ragione per cui il limite della sensibilità […] costituisce l’unico confine plausibile per la considerazione degli interessi altrui. Tracciare questo confine tramite caratteristiche come l’intelligenza o la razionalità significherebbe agire in modo arbitrario. Perché non scegliere allora il colore della pelle?”. (Peter Singer, Liberazione Animale).

Il giusnaturalismo di Tom Regan. Tom Regan parte da considerazioni simili a quelle di Singer, per estendenderle fino a dimostrare che almeno alcuni degli animali non-umani devono essere qualificati come persone e, pertanto, da considerarsi a tutti gli effetti titolari di diritti fondamentali, indipendenti da considerazioni di tipo utilitaristico e dal valore delle conseguenze. Regan afferma che quegli animali che condividono con noi “credenze e desideri, percezione, memoria, senso del futuro, (anche del proprio futuro), una vita emozionale, nonché sentimenti di piacere e di dolore, interessi-preferenze e interessi-benessere, capacità di dare inizio all’azione in vista della gratificazione dei propri desideri e del conseguimento dei propri obiettivi, identità psicofisica nel tempo, e benessere individuale, nel senso che la loro esperienza di vita è per loro positiva o negativa in termini logicamente indipendenti dalla loro utilità per altri e dal loro essere oggetto di interesse per chiunque altro”, sono soggetti-di-una-vita e hanno, pertanto, un valore inerente. “Per strette ragioni di giustizia, noi dobbiamo uguale rispetto a quegli individui che possiedono uguale valore inerente, siano essi agenti o pazienti morali e, in quest’ultimo caso, umani o animali”. Il più grande vantaggio di questa teoria è quello di dare un “guscio” protettivo definitivo ed invalicabile per tutti quei pazienti morali capaci di condurre una vita che può essere migliore o peggiore per loro stessi e con la capacità di rendersene conto. Secondo Regan, questa categoria deve estendersi almeno fino ad includere tutti i mammiferi con più di un anno di età. Ovviamente, il limite è escludere, almeno per ora, da questa protezione tutti gli altri animali.

“Ciò che dobbiamo ammettere, la verità che dobbiamo rimarcare è che, proprio come i neri non esistono in funzione dei bianchi, o le donne in funzione degli uomini, così gli animali non esistono in funzione dell’uomo. Essi non fanno parte delle generose sistemazioni approntateci da una divinità benevola o da una natura infinitamente previdente. Essi hanno un’esistenza ed un valore propri. Una morale che non incorpori questa verità è vuota. Un sistema giuridico che la escluda è cieco”. (Tom Regan, I diritti animali).

Il neo-contrattualismo di Donald Van De Veer. Van De Veer parte dalle teorie di John Rawls, secondo le quali una società giusta nasce dall’ipotetico accordo di contraenti interessati, ma imparziali. Tale condizione di imparzialità dovrebbe essere garantita da un “velo di ignoranza” che, in un’ipotetica condizione pre-originaria (cioè, prima della fondazione della società medesima), dovrebbe prevenire l’introduzione di elementi arbitrari e discriminatori nei confronti di alcuni componenti della società. I contraenti autointeressati nella condizione pre-originaria sanno che prima o poi entreranno a far parte di un mondo, ma, al momento di definirne le regole, non conoscono il loro sesso, la loro razza, la loro posizione sociale ed economica, il loro quoziente intellettivo, il loro futuro stato di salute o di malattia, ecc. In questa situazione ipotetica, ciascun contraente non introdurrà mai delle norme penalizzanti, ad esempio, per le persone di colore, perché sarebbe a rischio di penalizzare proprio sé stesso. Van De Veer, consapevole della minima differenza che separa animali umani da animali non-umani nella lotteria genetica, suggerisce di aumentare solo di poco il “velo di ignoranza”, ipotizzando che i contraenti nella situazione pre-originaria sappiano solo di essere creature senzienti ed ignorino, oltre agli aspetti precedentemente ricordati, la specie a cui apparterranno. E’ chiaro che, date queste circostanze, nessuno dei contraenti sosterrebbe più leggi a favore della vivisezione o degli allevamenti intensivi, con il rischio fondato di poter nascere maiale, scimmia o cavia.

La “filosofia della generosità e dell’auto-sacrificio” di Andrew Linzey. Una prospettiva ancora diversa è quella del teologo anglosassone Andrew Linzey. Linzey parte dal concetto di “teodiritti”, secondo il quale Dio come creatore ha diritti sulla sua creazione, che, ovviamente, comprende anche gli animali. Esistono, pertanto, dei diritti animali basati sul diritto di Dio ad essere onorato e rispettato nella sua opera creaturale. Ai suoi occhi tutte le creature viventi hanno valore inerente e compito dell’uomo, che mantiene una posizione di preminenza, è quella di contribuire con generosità e responsabilità al disegno divino di salvezza generale di tutti gli esseri senzienti. Linzey, pertanto, mantiene il concetto di “superiorità” umana, ma, rivitalizzando alcune intuizioni rarissime ma positive del cristianesimo, parla esplicitamente di diritti animali. Gli animali non sono uguali all’uomo perché più deboli ed indifesi: in un paradigma cristiano, che vede la generosità divina esemplificata dalla persona di Gesù, essere deboli ed indifesi prevede la necessità di una maggiore, e non di una minore od uguale, considerazione. “La debolezza dovrebbe avere priorità morale”.

“Partendo dall’idea di un Dio che soffre io sostengo che l’unicità umana possa essere definita proprio come la capacità di servire ed auto-sacrificarsi. In questa prospettiva gli uomini sono l’unica specie, a parte l’unico Alto Sacerdote, destinata ad esercitare il sacerdozio autosacrificale non solo per i membri della loro stessa specie, ma per tutte le creature senzienti. Il gemito ed il travaglio delle creature compagne richiede una specie capace di cooperare con Dio per la guarigione e per la liberazione della creazione intera”. (Andrew Linzey, Teologia animale).

La “filosofia ecologica” di John Passmore e Mary Magdley. Anche se non strettamente animaliste, le posizioni di Passmore e della Magdley, che si rifanno invece ad una più generica nozione di etica ecologista e ad “un’antropocentrismo moderato”, possono essere aggiunte a conclusione di questa rassegna del moderno pensiero animalista, perché, comunque, portatrici di un profondo senso di rispetto nei confronti del mondo animale che, se universalmente accettato, determinerebbe, comunque, una netta modificazione dei nostri comportamenti distruttivi verso gli animali non-umani e, di conseguenza, ad un significativo miglioramento della loro misera condizione esistenziale. A differenza di Singer e Regan, Passmore e Migdley, più simili in questo a Linzey, non disdegnano, come detto, una visione specista, ma la declinano in termini di responsabilità e di rispetto, invece che in termini di dominio. Per loro, in sostanza, uomini ed animali sono differenti e gli animali non sono portatori di diritti in senso stretto. Tuttavia, essi riconoscono che uomini ed animali sono parte di una biosfera comune e, pertanto, il senso di responsabilità (Passmore) o la proiezione simpatetica (Migdley), nonché la consapevolezza del nostro destino strettamente interrelato, dovrebbero far sì che l’uomo estenda l’area di solidarietà agli animali non-umani. In sostanza, questi autori si pongono a cavallo tra le posizioni più tradizionali e quelle emancipazionistiche di Singer e Regan e, invece di prevedere un’estensione della sfera dei diritti a comprendere gli animali non-umani, auspicano una perdita di diritti dell’uomo sugli altri animali e sulla natura.

In sostanza, esaminate le principali posizioni del pensiero animalista o “para-animalista” ci si trova di fronte ad una base comune, difficilmente confutabile: gli animali non-umani provano piacere e dolore e pertanto devono necessariamente entrare nella sfera della considerazione etica. Tale considerazione etica se associata, come in Singer e Regan, all’abbatimento della tradizionale linea di demarcazione tra uomo e resto della creazione animale, porta inevitabilmente alla nozione di diritti animali. Nozione di diritti animali sostenuta anche da Linzey per mezzo un “antropocentrismo moderato” associato alla nozione cristiana di valore morale della debolezza. La medesima considerazione etica ed un medesimo “antropocentrismo moderato” questa volta sullo sfondo di una nuova sensibilità ecologica, come in Passmore o in Migdley, risulta in una definizione di una serie di doveri da parte degli umani verso gli animali non-umani. Anche gli sviluppi moderni del pensiero marxista (Adorno, Horkheimer e Marcuse) con l’estensione del concetto di oppressione al mondo animale e naturale e del pensiero liberale con l’estensione agli animali non-umani del concetto di “rispetto del diverso” (Van De Veer) conducono a conclusioni molto simili. In sintesi, qualsiasi sia il background culturale di ciascuno di noi, se vogliamo mantenerci in un ambito di giustizia, non possiamo non riconoscere la profonda inadeguatezza etica del nostro attuale comportamento verso gli animali non-umani e non prendere da subito adeguate contromisure legislative e giuridiche volte a sanare definitivamente le loro inaccettabili condizioni di vita determinate dai nostri comportamenti quotidiani profondamente e fondamentalmente ingiusti ed immorali.

Quello che c’è di fuori, lo sappiamo soltanto / dal viso animale.
Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi.

Conclusioni: ritorno al futuro

Al termine di questo breve excursus sugli ultimi 10.000 anni di pensiero intorno agli animali e dopo aver constatato che la presunta linea divisoria tra “noi” e “loro” è altrettanto labile, opinabile, ignobile ed infame delle decine di linee divisorie (basate sulla medesima e fuorviante contrapposizione noi/loro) che, durante la storia di Homo Sapiens Sapiens, sono state erette e talvolta vittoriosamente travolte (uomo/donna, liberi/schiavi, greci/barbari, cristiani-islamici-ebrei/pagani, bianco/nero, classi agiate/classi povere, europei-nordamericani/migranti, ecc. ecc.), sorge spontanea la domanda: e se fossimo noi al loro posto?
Questa domanda, che è stata, spesso occultamente, il motore di molta fantascienza, sta alla base anche di un interessante esperimento mentale proposto da Desmond Stewart (“Vennero i Troog e dominarono la Terra”). I Troog sono extraterrestri molto più intelligenti e potenti di noi che, dopo essere sbarcati sulla terra ed averne preso possesso, “giustamente”, secondo la nostra visione del mondo dominante, iniziano a trattare gli uomini come noi trattiamo gli animali. Quelli più spietati e veloci come ausilio per la caccia di quelli più timidi e spaventati, quelli più graziosi come animali da compagnia, altri più propensi a produrre carni gustose come animali per allevamento in batteria (tra questi vengono preferiti i bambini per le loro carni tenere) e gli esempi potrebbero continuare all’infinito con la vivisezione, i circhi, gli zoo, ecc.
Ad un’analisi superficiale tutto questo potrebbe sembrare semplicemente il risultato di una sterile retorica accademica. Noi siamo la specie dominante, qualche entità superiore (Dio, la natura, i meccanismi dell’evoluzione, la razionalità della storia, l’astuzia della ragione, “le magnifiche sorti e progressive” o qualche altro marchingegno di giustificazione di un potere usurpato) ci ha messo nella posizione di dominio che occupiamo e, pertanto, le cose non possono che andare come vanno. E poi gli extraterrestri non esistono e, anche se esistessero, per il solo fatto che vivono così lontani da noi e che nessuno può viaggiare più veloce della luce, l’esperimento mentale su proposto è semplicemente invalido.
Tuttavia, ad un’analisi solo un poco più attenta, la prospettiva cambia. La natura del processo imperiale nell’era della globalizzazione prevede, infatti, la totale sottomissione delle sfere dell’etica e della politica alla sfera dell’economico e ha come fondamento una visione strumentale della natura come patrimonio genetico a loro (le poche e potentissime multinazionali agro-alimentari e chimico-farmaceutiche) completa disposizione per essere manipolato e, potenzialmente, ricreato. Alla luce di queste considerazioni, la scoperta che noi e gli animali, tradizionale terreno di sfruttamento incondizionato, siamo davvero molto simili non dovrebbe più lasciarci così indifferenti. Tutto questo era già ben chiaro molto tempo fa alla componente più avveduta del movimento socialista, se, Rudkus, l’immigrato lituano che trova lavoro nell’immenso, primo macello industriale di Chicago (le Union Stock Yards) e protagonista del romanzo “The Jungle” (1906) di Upton Sinclair, alla fine della sua esperienza lavorativa così commenta:

“Ciò che gli imprenditori vogliono da un maiale è il massimo del profitto che questo può dare e questo è esattamente quello che vogliono dall’operaio ed anche dai consumatori […] Ciò che il maiale pensa di tutto questo e tutte le sue sofferenze non venivano considerati, sembrava che ci fosse qualcosa nel lavoro dei macelli che portava alla crudeltà ed alla ferocia”.

In un mondo globalizzato, dove le variegate differenze di ogni persona si appianano nella omologante figura del consumatore, queste considerazioni dovrebbero far riflettere. Tanto per fare qualche esempio, la sete di profitto non differenzia tra bovini massacrati nelle infernali condizioni imposte dalla moderna zootecnia e trasformati in cannibali/carnivori ed umani consumatori di carne: entrambi sono “democraticamente” sfruttati ed esposti al morbo della mucca pazza. La stessa logica antepone il profitto alla certezza scientifica che la dieta carnea è incompatibile con la sopravvivenza del pianeta (per la dissipazione di proteine alimentari, per il consumo delle risorse idriche, per la desertificazione dei rimasugli di aree “verdi” ora adibite a pascolo, per il contributo notevole all’”effetto serra”, per l’inquinamento dei reflui dell’allevamento stesso – per un approfondimento cfr. Jeremy Rifkin, “Ecocidio”) ed alla vita di milioni di umani (nel 1984, durante una delle carestie più tremende della storia dell’Etiopia, mentre ogni giorno migliaia di animali umani morivano di fame, la stessa Etiopia, sotto l’egida dell’Occidente opulento, usava gran parte della propria terra per produrre semi di lino, cotone e ravizzone da esportare in Inghilterra per il bestiame locale; il 19 Marzo del 1998, il Guardian ci informa che 49.000 capi sospetti di essere portatori della encefalopatia spongiforme bovina sono scomparsi: ovviamente, il “riciclo” illegale di questi animali si è rivelato economicamente più remunerativo del loro abbattimento e, forse, non è difficile immaginare dove siano finite queste carni potenzialmente infette…). La stessa logica informa la sperimentazione animale: il 52% dei farmaci che arrivano sul mercato statunitense, quindi dopo aver passato tutti i test sugli animali, vengono poi ritirati dal commercio per gravi effetti collaterali (compresa la morte) sui soliti consumatori umani (dato tratto da Journal of the American Medical Association, 1998: questa associazione può certamente avere molti difetti, ma non può certo essere accusata di particolari simpatie per la causa animalista!). Ancora una volta si storpiano ed uccidono “democraticamente” sia animali umani che animali non-umani (per un approfondimento cfr. Stefano Cagno, “Gli animali e la ricerca”).
E tutto questo è ben lungi dall’essere un problema facilmente superabile di fronte al progressivo strapotere della biotecnologia. Come riporta Jeremy Rifkin in “Il secolo biotech”, Lee Silver, biologo molecolare a Princeton, prevede che tra non molto l’umanità si dividerà in due distinte classi biologiche, la Gen Rich e la Natural. La classe Gen Rich rappresenterà circa il 10% della popolazione, quella che avrà i mezzi economici per arricchire il DNA della propria prole con geni sintetici che ne miglioreranno a dismisura le doti intellettuali, fisiche e di comando. Ed ecco come Lee Silver prevede sarà il nostro futuro:

“Con il trascorrere del tempo, la distanza genetica tra la classe Natural e la classe Gen Rich potrebbe diventare sempre più grande e non sarebbe più possibile per un individuo salire dalla classe Natural alla Gen Rich […] Tutti gli aspetti dell’economia, dei media, dell’industria del divertimento e dell’industria della conoscenza verranno controllati dai membri della classe Gen Rich […] Invece, i Natural lavoreranno come fornitori di un servizio sottopagato o come operai […] I bambini Gen Rich e Natural crescono e vivono in mondi sociali separati, con poche opportunità di contatto […] [alla fine] la classe Gen Rich e la classe Natural diventeranno gli uomini Gen Rich e gli uomini Natural, specie totalmente separate con nessuna opportunità di incrocio e con una specie di “curiosità” gli uni per gli altri, come adesso accade per gli uomini e gli scimpanzé”. (Lee M. Silver, Remaking Eden: Cloning and beyond in a Brave New World, 1997).

Sarà inutile ricordare che la nostra “curiosità” per gli scimpanzé si ferma al farli impazzire negli zoo, a ridicolizzarli nei circhi ed a massacrarli nei laboratori biomedici? Inoltre, non sarà inutile ricordare che Lee Silver, lungi dall’inorridire a questa prospettiva, aggiunge in piena linea con il pensiero neoliberista: “Chiunque riconosca a genitori benestanti il diritto di offrire ai loro figli, per esempio, la possibilità di frequentare una costosissima scuola privata, non può definire ingiusto l’uso di tecnologie reprogenetiche […] In una società che attribuisce alla libertà umana il massimo valore è difficile trovare una qualunque base legittima per restringere l’uso della reprogenetica”.
L’esperimento mentale di Stewart e dei Troog, quindi, è tutt’altro che una peregrina esercitazione retorica, ma piuttosto il ritorno “in grande stile” di un passato già vissuto molte volte e che potremmo rivivere indefinitamente nel futuro. Noi siamo convinti che l’Olocausto sia unico e, in quanto unico, irripetibile. Non tutti la pensano così:

“Auschwitz inizia quando si guarda ad un macello e si pensa: sono solo animali”. (Theodor W. Adorno, citato in Christa Blanke, Da Krähte der Hahn: Kircke für Tier? Eine Streitschrift).

“Si sono convinti [studiosi, filosofi e leader del mondo] che l’uomo, il peggior trasgressore di tutte le specie, sia il vertice della creazione: tutti gli esseri viventi sono stati creati unicamente per procurargli cibo e pellame, per essere torturati e sterminati. Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno”. (Isaac Bashevis Singer, L’uomo che scriveva lettere).

L’attuale infernale condizione animale ci richiama, pertanto, ad una forte presa di coscienza non solo per la sua stessa infamia e brutalità, ma anche perché “palestra” formativa di una nuova Treblinka universale. Il recente slogan di una sinistra ancora tristemente antropocentrica, “un nuovo mondo è possibile”, deve necessariamente trasformarsi nello slogan “un nuovo mondo è necessario per animali umani e non-umani”, se non vogliamo vivere tra qualche anno l’esperienza magistralmente riassunta dal filosofo austriaco Helmut Kaplan: “I nostri nipoti un giorno ci chiederanno: dov’eri durante l’olocausto degli animali? Che cosa hai fatto per fermare questi crimini orribili? A quel punto, non potremo usare la stessa giustificazione per la seconda volta, dicendo che non lo sapevamo”. Come da anni ci rammenta Gino Ditadi, questo barbaro e tracotante mondo necessita di essere “ingentilito” ed in questo processo di “ingentilimento del mondo”, l’animalismo avveduto e critico ed una nuova visione etica del mondo, dei suoi abitanti umani e dei nostri “fratelli minori” che condividono con noi l’esperienza terrena del piacere e del dolore, non possono non giocare un ruolo fondamentale:

“In riferimento al movimento di liberazione degli animali, deve essere chiaro che la definizione di “animalista” è ormai diventata difettiva ed angusta, perché le nuove frontiere dell’etica, della biologia e della filosofia impongono una battaglia a tutto campo di più alto profilo e quindi è necessario che il movimento animalista sia consapevole di questo, non si autoghettizzi come magari molti vogliono. Noi abbiamo ragioni non da vendere, ma da stravendere, non abbiamo paura di nessuno, perché le cose sono ormai chiarissime, e quindi non dobbiamo aver paura di far convegni, non dobbiamo aver paura di discutere, dobbiamo presentarci sulla scena della società con sicurezza. Qui non si sta discutendo semplicemente sul mondo animale, si sta decidendo del futuro della vita, quindi io non credo che una persona intelligente non capisca questo problema. Il discutere sul futuro della vita riguarda tutti”. (Gino Ditadi, Oltre l’animalismo).

L’animalismo, che scoprendo le proprie basi filosofiche e politiche, diventa ciò che è sempre stato non è più così una scelta privata più o meno á la page, ma la più radicale, profonda e rivoluzionaria critica dell’esistente. Parafrasando Rilke, dal volto disperato ed impotente dell’animale non-umano, pronto a diventare cibo, farmaco, abbigliamento o svago, possiamo sapere cosa ci aspetta là fuori nel prossimo futuro.