Anche il cane li seguì…

Sezione: Racconti

“Conosco un monaco che un giorno, essendo ancora pochi i suoi fratelli, portò alla liturgia delle ore una capretta e un asino e fece entrare anche il suo cagnolino che sempre lo seguiva. Dio fu contento di quell’assemblea di co-creature che lo lodavano…”
Enzo Bianchi

“ANCHE IL CANE LI SEGUI’…”
Qualche spunto per una riflessione teologica sull’uomo e sugli animali

PREMESSA: LA DUPLICE FINALITA’ DEL DISCORSO

Contestare il modello antropocentrico, affermare la sacralità di ogni creatura

L’intento di questa relazione è di contestare il modello antropocentrico e la tradizione ecclesiastica che lo sostiene: per antropocentrismo intendiamo quella sorta di grave presunzione, quella specie di sordo egocentrismo che spinge a ritagliare gli argomenti solo intorno all’uomo e al suo modo di vedere le cose. Esiste un antropocentrismo laico, legato a logiche utilitaristiche e consumistiche intese solo alla massimizzazione dei profitti e del benessere immediato e materiale (si pensi alla vivisezione e agli allevamenti intensivi), oppure legato a particolari contesti culturali/filosofici in cui il primato dell’intelligenza umana comporta, come corollario, anche il diritto alla rapina, alla violenza, alla distruzione dei non-umani (si pensi alle gerarchie dell’intelletto di Aristotele o agli autòmata del razionalismo di Cartesio). Esiste un antropocentrismo religioso, che spesso costituisce il fondamento ideologico dell’antropocentrismo laico, ed è quello di chi parla di Dio come se si trattasse di un concetto a suo uso e consumo e intende l’azione creatrice come un dono esclusivo di Dio all’uomo, quasi a dire che, a parte l’uomo, tutta la creazione risulti accessoria e secondaria. L’ homo religiosus antropocentrico è spinto a classificare il mondo o ponendosi al suo esterno, quasi senza percepire di esserne parte integrante, oppure dal suo interno, ma ritenendosi, in questo caso, il parametro ultimo in grado di dare un senso a tutto ciò che esiste. A pagare il prezzo più alto di questo strabismo teologico è di solito il mondo animale, umiliato, sfruttato, snobisticamente escluso da ogni dignità creaturale e religiosa, come a dire che la spiritualità è un fatto del tutto umano e che non esiste nessuna consolazione e nessuna salvezza per chi non appartiene al genere “eletto” degli uomini.

L’altro obiettivo di queste poche pagine (inadeguate per principio e per sostanza, come ogni sforzo umano che tenti di interpretare la profondità delle Sacre Scritture) consiste nella presunzione di dimostrare che non l’antropocentrismo ma il biocentrismo (cioè il sentimento della sacralità di ogni creatura vivente) interpreta quel modo di sentire/pensare/agire che Dio si attende dall’uomo. Il sentimento di tenerezza e il coinvolgimento pieno di stupore per la bellezza di ogni vita creata è il “modo di dirsi di Dio all’uomo”, di quel Dio Creatore che ripetutamente ribadisce la sua volontà di allearsi con tutto ciò che vive sulla terra (Genesi 9, 11-17). Dio “patisce” nelle creature e “agisce” in previsione della loro consolazione e salvezza. Ogni cosa è “tov” (buona) per il Creatore: quel pregiudizio, purtroppo frequentissimo, secondo cui preoccuparsi degli animali significherebbe trascurare gli uomini, non ha fondamento nella Bibbia, e spesso denuncia la volontà di non occuparsi né degli uni, né degli altri. Così Michel Damien riassume e commenta questa falsa alternativa: “Quante discussioni per sapere se è meglio proteggere gli orfani di guerra e i bambini percossi dai genitori nei tuguri urbani oppure i cuccioli di foca sgozzati vivi sulla banchisa o gli orsi che impazziscono nei giardini zoologici! Come ha potuto la coscienza cristiana, la coscienza umana, crearsi simili dilemmi? Tutto è da scegliere, tutto è da fare. Nessun essere fra quanti soffrono e muoiono deve essere escluso” (Gli animali, l’uomo e Dio; Piemme).

PARTE PRIMA: ANTROPOCENTRISMO RELIGIOSO E TRADIZIONE ECCLESIASTICA

Una introduzione autorevole: Enzo Bianchi

“La tradizione cristiana si è quasi sempre nutrita di un antropocentrismo orgoglioso: tutto è ordinato all’uomo, referente unico, solo orizzonte della creazione, signore e re assoluto sul cosmo, culmine e fine dell’opera creazionale. La vocazione delle cose e quindi degli animali è il servizio all’uomo, così come l’uomo ha la vocazione a servire Dio e amarlo… Nessuno può negare che il cristianesimo occidentale, soprattutto nel secondo millennio, ha coltivato una fede acosmica dove la natura, gli animali e i vegetali costituiscono semplicemente il contesto per l’uomo, il suo ambiente. Paura del panteismo pagano, certo, paura di divinizzare animali, piante e cose, timore di attentare all’alterità trascendente del divino, ma anche riduzione della natura a fornitrice di cibo per l’uomo, in un rapporto che sostanzialmente non vede solidarietà ma solo mera funzionalità nei confronti del “re della natura”. Non vi è in questo una fuoriuscita dall’ottica della comunione, a tutto favore dell’ottica del consumo?… Proprio per questo, e sovente con ragione, gli uomini culturalmente cristiani sono individuati tra i responsabili della devastazione e dello sfruttamento del pianeta, mentre nella recente “conversione” di alcuni ambienti cristiani all’ecologia non è assente una nuova subordinazione della creazione alla preoccupazione prioritaria per la sopravvivenza dell’uomo” (Enzo Bianchi, Uomini e animali, Qiqajon).

Rapporto uomo-animali: il dibattito delle interpretazioni nel mondo cattolico

Sebbene ci siano dei segnali di risveglio della sensibilità religiosa verso gli animali (l’enciclica Sollecitudo Rei Socialis (1987) di Giovanni Paolo II al paragrafo 34 parla specificatamente del bisogno di rispettare “la natura di ogni essere” all’interno della creazione, e sottolinea la moderna visione che ciò che “il dominio concede all’uomo…non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di disporre delle cose come più ci aggrada”; il Messaggio sulla pace e la salvaguardia del creato (1990) del Papa, afferma che ”non solo l’uomo ma anche gli animali hanno un soffio divino”; il documento congiunto della Chiesa Evangelica e della Chiesa Cattolica di Germania dal titolo Responsabilità per il creato (1985) evidenzia che c’è “un modo di intendere la natura che pone erroneamente al centro l’uomo e considera la natura solo come oggetto”) è sempre vero purtroppo che buona parte della tradizione ecclesiastica, molti teologi e tanti preti continuano a negare che gli uomini abbiano dei doveri diretti verso gli esseri non-umani. Non si può nascondere: il mondo cattolico ha un orientamento dominante di indifferenza e di disinteresse, quando non di rifiuto e di opposizione, nei confronti della questione animale. Nei trattati di teologia morale non è infrequente che ci si appelli – contro ogni “sentimentalismo” nei confronti dei “bruti” – alla dottrina cattolica, la quale insegna che gli animali non hanno diritti che debbano essere rispettati dall’uomo. Per esempio ne La morale cattolica esposta nelle sue premesse e nelle sue linee fondamentali (1912) il gesuita Viktor Cathrein spiega: “L’animale non possiede diritti di sorta (…) L’uomo non solo non ha verso gli animali dei doveri giuridici, ma nemmeno doveri di altro genere (…) Come dovremmo avere dei doveri verso creature che possiamo a nostro capriccio fare a pezzi, arrostire o mangiare? Il motivo intrinseco è che l’animale non è persona, ossia non è creatura ragionevole, sussistente per sé, ma semplice mezzo per il nostro fine”. Interessante è pure la netta affermazione espressa da fonte estremamente qualificata, il Dizionario di teologia morale (1961) diretto dal cardinale Francesco Roberti, che chiarisce ulteriormente la questione con queste parole: “L’ordine gerarchico delle creature, voluto dal Creatore, ha posto l’uomo re e quindi proprietario e usufruttuario di tutti gli esseri inferiori. Gli zoofili perdono troppo di vista lo scopo per cui gli animali, creature irragionevoli, sono stati da Dio creati, cioè a servizio e uso dell’uomo”. La rivista Civiltà cattolica nel numero del 7 agosto 1993, in polemica con animalisti e vegetariani, ribadisce che: “nella visione cristiana l’uomo è il centro e il fine della creazione, cosicché Dio ha creato tutto, esseri inanimati, piante, animali, per l’uomo, perchè se ne serva per il suo bene materiale e spirituale. La visione cristiana non è dunque ‘biocentrica’, ma ‘antropocentrica’; non ritiene che il valore supremo della creazione sia la ‘vita’, come pensano coloro che professano il biocentrismo, in particolare gli animalisti, ma afferma che il valore supremo della creazione è l’uomo, in quanto è l’unica creatura spirituale e dunque intelligente, libera e autocosciente, e in quanto è l’unica creatura che, essendo stata creata a immagine di Dio, è capace di entrare in comunione con Lui e di partecipare alla sua natura divina (…). Gli animali non hanno ‘diritti’ né possono essere soggetti di diritti, perchè solo la persona, proprio perchè di natura spirituale, può avere diritti (…). Solo l’uomo, in quanto essere spirituale e quindi non vincolato deterministicamente alla materia (…) è capace di amare, mentre tutti gli altri esseri rimangono chiusi in se stessi”. Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) recepisce la tradizione antropocentrica e si attesta su posizioni non dissimili, nella sostanza, da quelle prima considerate. A fronte di un generico invito alla benevolenza verso gli animali – “Gli animali sono creature di Dio. Egli li circonda della sua provvida cura. Con la loro semplice esistenza lo benedicono e gli rendono gloria. Anche gli uomini devono essere benevoli verso di loro” (2416) – si precisa che, tuttavia, “Dio ha consegnato gli animali a colui che egli ha creato a sua immagine. È dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere al nutrimento o per confezionare indumenti. Possono essere addomesticati, perchè aiutino l’uomo nei suoi lavori e anche a ricrearsi negli svaghi. Le sperimentazioni mediche e scientifiche sugli animali, se rimangono entro limiti ragionevoli, sono pratiche moralmente accettabili, perché contribuiscono a curare o salvare vite umane” (2418). Si ha cura di sottolineare che la benevolenza verso i non-umani ha dei limiti precisi: infatti è “indegno dell’uomo spendere per gli animali somme che andrebbero destinate, prioritariamente, a sollevare la miseria degli uomini” (2419).

Alcune, prime, obiezioni

Quali sono i “limiti ragionevoli” della sperimentazione scientifica e chi li stabilisce? E’ davvero “moralmente accettabile” l’ idea che la vita umana ed il benessere degli esseri umani abbiano un così alto significato da giustificare l’uso istituzionalizzato di milioni di animali in procedimenti sperimentali atroci che infliggono grande sofferenza? Come si fa ad “essere benevoli” con gli animali nella consapevolezza che il denaro che destini al loro benessere è speso “indegnamente”? Le campagne di sensibilizzazione pubblica, la gestione dei ricoveri, la stampa pubblicistica, le spese veterinarie, le iniziative legali contro i maltrattamenti sono i modi con cui concretamente (al di là di una benevolenza di maniera inutile e un po’ ipocrita) si difendono e si amano gli animali: tutto ciò non può realizzarsi senza spese – anche ingenti, talora – di denaro! Verso la metà del XIX secolo, papa Pio IX proibiva la creazione di un ufficio di protezione degli animali a Roma, sulla base del principio tomistico che gli uomini hanno dei doveri solo verso i loro simili e non verso gli animali. Ogni “buona coscienza cristiana” deve dunque dormire sonni tranquilli anche sapendo che oltre 10 miliardi di animali mammiferi ogni anno vengono macellati a fini alimentari nel mondo (senza includere i milioni di esemplari di cani che vengono uccisi per l’alimentazione umana nei paesi asiatici). Da questi conti sono esclusi i pesci e altri animali “minori” il cui numero è impressionante: basti pensare, ad esempio, ai 100 milioni di rane uccise ogni anno in India e alle 5.000 tonnellate di chiocciole che vengono bollite vive ogni anno in Italia. Centinaia di milioni, ogni anno, sono le cavie da laboratorio sacrificate alla vivisezione in tutto il mondo. Secondo i dati forniti dall’Unione Europea sono 30.000 gli animali usati ogni anno in Europa per i test di tossicità dei cosmetici. In Italia il dato totale degli animali vittime di esperimenti si divide come segue: 356.000 topi, 688.145 ratti, 31.564 cavie, 31.004 conigli, 897 cani, 263 gatti, 1.708 suini, 583 scimmie, 6.761 uccelli, 910 rettili, 1.725 anfibi, 3.645 pesci. Dai cacciatori italiani vengono uccisi ogni anno 150 milioni di uccelli migratori; esclusi gli uccelli, il totale degli animali uccisi ogni anno in Italia nello “sport” della caccia raggiunge i 300 milioni di capi. Nel mondo ogni anno vengono uccisi, per prelevarne la pelliccia, dai 15 ai 20 milioni di mammiferi selvaggi, la maggior parte catturati con tagliole.

Le radici ideologiche dell’antropocentrismo religioso: Tommaso D’Aquino

Perché le nazioni dove gli animali vengono meno rispettati e più crudelmente perseguitati, sono quelle cristiane dell’Europa mediterranea e dell’America latina? Perché le stragi di animali che si effettuano durante le feste religiose della cattolicissima Spagna, non solo non vengono condannate, ma sono addirittura patrocinate da confraternite e da parroci, senza che le Autorità diocesane, salvo qualche rara eccezione, abbiano nulla a ridire? Perché tanto disinteresse ed indifferenza, anche in Italia, sulla sorte degli animali, in particolar modo sull’uccisione lenta, dolorosa, straziante degli agnelli, che cinque volte nella Messa vengono evocati per simboleggiare il Figlio di Dio? Perché c’è il silenzio pressochè assoluto da parte della catechesi, e quindi anche della morale, sul comportamento che i cristiani dovrebbero avere con gli animali?

Senza pretendere, ovviamente, di dare risposta a questioni così aperte e complesse, proveremo a capire l’aridità affettiva di un certo cattolicesimo ecclesiastico verso i non-umani esaminando il pensiero del gigante della tradizione cattolica, Tommaso D’Aquino (1225-1274), la cui teologia domina ancora oggi su molta parte del pensiero della Chiesa, anche quello relativo agli animali. Nella Summa Theologica (quest.64,art.1) Tommaso discute se il comandamento del “non uccidere” vincoli l’uomo anche nei confronti degli animali e dei vegetali. Egli sostiene che: “Quando noi sentiamo dire «non uccidere», non dobbiamo credere che si riferisca agli alberi perché non hanno sensibilità, né agli animali irrazionali perché non vi è amicizia tra noi e loro”. Ma è l’appello all’“ordine naturale delle cose”, al “disegno provvidenziale della natura”, che domina il pensiero tomistico sugli animali: “Non vi è peccato nell’utilizzo di una cosa per lo scopo per cui essa è creata. Ora, l’ordine delle cose vede quelle imperfette fatte per le perfette, come nel processo di generazione naturale dove si procede dall’imperfezione alla perfezione…per cui non è illecito se l’uomo utilizza le piante per il bene degli animali, e gli animali per il bene dell’uomo, come dice Aristotele”. E infine, con una riga quasi interamente copiata da Aristotele (Politica 1, VIII), il terzo argomento a sostegno della propria tesi: gli animali non posseggono la ragione, l’anima razionale che non muore con il corpo e che è di natura divina, e pertanto possono/devono essere asserviti agli interessi degli uomini: “Animali e piante sono privi della vita della ragione che muove; essi sono mossi, come da qualcosa che non gli appartiene, da una sorta di impulso naturale, un segno del fatto che essi sono naturalmente schiavizzati e adatti all’uso di altri”. Nel caso si pensi che questa sia una forzatura o una cattiva lettura delle posizioni di Tommaso, bisogna notare che queste concezioni sono difese in tutta la sua consistente opera senza sostanziali variazioni. Vi sono infatti dei passi dove egli sottolinea la totale assenza di status morale richiamando la legittimazione dei privilegi umani assoluti sugli animali. Nella Summa Contra Gentiles (libro111,cap.CXII) egli sostiene che “grazie alla divina Provvidenza, gli animali sono naturalmente intesi per l’uso degli uomini. Quindi non è sbagliato usarli in qualsiasi modo, anche uccidendoli”. All’obiezione che il comandamento di Dio impone all’uomo di amare il “prossimo”, Tommaso risponde che il “prossimo” in questione è sempre e solo l’uomo, cioè l’essere razionale (Summa Theologica, quest.65,art.3): “La parola «prossimo» non può essere estesa alle creature irrazionali dal momento che esse non hanno relazioni con noi nella vita razionale” e quindi “la carità non si estende alle creature irrazionali”. Il Creatore ama gli animali non in se stessi, ma indirettamente, come strumenti per l’uomo: “Sì, la benevolenza verso gli animali può essere appropriata” se noi li consideriamo “beni che desideriamo per gli altri” cioè per “la gloria di Dio e l’uso dell’uomo”. Anche nei confronti delle donne, sebbene in grado minore, si può osservare la stessa logica. Gli uomini, non gli uomini e le donne, sono fatti ad immagine di Dio, e quindi solo i maschi possiedono la piena razionalità. Le donne stanno a metà tra gli uomini e le bestie (Summa Theologica, quest.93,art.4): “L’immagine di Dio è fondata sull’uomo e non sulla donna, ad indicare la soggezione di quest’ultima”.

Dunque, ricapitolando: per Tommaso (e con lui la morale dominante della cultura teologica cattolica) gli animali non possono rivendicare alcun diritto presso gli uomini, neppure quello della loro sopravvivenza, per i seguenti motivi: a) non sono amici dell’uomo; b) l’ordine naturale delle cose prevede che il più debole e imperfetto sia sacrificato alle necessità del più forte e perfetto; c) gli animali sono privi della ragione quindi sono per natura schiavi dell’uomo, essere razionale; d) nemmeno Dio ama gli animali, o più precisamente li ama non in se stessi, ma poiché essi rappresentano delle scorte alimentari per l’uomo.

Il fondamento ideologico di Tommaso non è biblico: ha origini greche e non ebraiche

Il pensiero di Tommaso nei confronti degli animali trova sostegno/conferma/fondamento nei Testi Sacri? L’irresponsabilità, il disinteresse, lo sfruttamento (spinto fino alla crudeltà, alla schiavitù, all’uccisione) che dovrebbero – secondo l’Aquinate – normare il rapporto del “buon cristiano” con il mondo animale e vegetale è veramente il legame che il Dio della Bibbia desidera/progetta/promuove tra l’uomo e il resto del creato? La persona religiosa è davvero autorizzata a parlare di Dio come se si trattasse di un concetto a suo uso e consumo, a intendere l’azione creatrice e salvifica come un dono esclusivo di Dio all’uomo?

Tanto il Vecchio quanto il Nuovo Testamento sconfessano le audaci e spietate interpretazioni tomistiche. E ciò non può sorprendere se si considera che il fondamento di Tommaso non è biblico: la tradizione che sostiene che agli occhi di Dio la creazione non-umana non ha valore se non come nostro strumento, ha origini greche e non ebraiche. In Tommaso la Genesi viene interpretata nei termini del percorso aristotelico che vede la natura come un sistema gerarchico-dispotico nel quale è scontato che il maschio sia superiore alla femmina, la femmina allo schiavo e lo schiavo alla bestia, e così via in ordine intellettuale decrescente. Dunque, in una prospettiva teologica cristiana, la debolezza delle concezioni di Tommaso sugli animali deriva da ciò che del suo pensiero proviene da fonti ellenistiche. Due assiomi di Aristotele sono assorbiti quasi senza la minima obiezione. Il primo è che solo gli uomini sono razionali. Il secondo è che gli animali non hanno alcuno scopo funzionale oltre a quello di servire gli esseri umani. Questa idea di una creazione interamente compiacente e naturalmente ordinata per il bene dell’uomo è assunta dogmaticamente in tutta la Summa Theologica. Tommaso non fa altro che dare a queste idee greche un rispetto sacro e teologicamente fondato citando, quasi marginalmente, a sostegno di Aristotele, Genesi 1,28 e 9,3 con l’inevitabile riferimento ai verbi “soggiogare” e “dominare” e alla concessione data da Dio all’uomo di una dieta carnivora. Ma i due passi non sono privi di ambiguità significative. In Genesi 9,4 si legge che all’umanità è concesso il cibo carneo solo a condizione che essa non si appropri del nephes, la vita simboleggiata dal sangue: “Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue”; in Genesi 1,29 agli uomini viene comandato di essere vegetariani: “Poi Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo»”. Nel versetto successivo la dieta vegetariana è imposta da Dio anche agli animali: “A tutte la bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde”.

PARTE SECONDA: LA SACRALITA’ DI OGNI CREATURA VIVENTE

Il mondo nel sogno di Dio: Genesi 1, 28-31

Genesi 1, 28-31: (28) “Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela (kavash) e dominate (radah) sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». (29) Poi Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. (30) A tutte la bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne. (31) Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno”.

a) Occorre comprendere bene il valore semantico dei verbi kavash (soggiogare) e radah (dominare). L’ uomo deve essere fecondo, lottare contro la morte affermando la vita, deve occupare e abitare lo spazio terrestre; ma questo riempire la terra non può significare calpestarla: come Israele nei confronti della terra promessa, egli deve popolarla, abitarla in un rapporto pieno, cioè possedendola, coltivandola e custodendola. Questo è il senso del verbo kavash: non tanto “soggiogare”, quanto piuttosto possedere la terra in un rapporto amoroso, armonioso e ordinato. Quanto al verbo tradotto usualmente con “dominare”, radah, si ricordi che indica reggere, guidare, pascolare, con un’azione che è quella del re e del pastore che governa sostenendo e custodendo lo shalom, la vita piena nella pace.

b) Che il senso dei due verbi (kavash e radah) debba essere inteso proprio in questa accezione e non nella loro svilente e semplificata traduzione italiana è confermato nel capitolo successivo (Genesi 2,15): “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse (‘avad) e lo custodisse (shamar)”. ‘Avad (coltivare) e shamar (custodire) è il compito che il racconto simbolico dell’uomo senza peccato riserva alla mitica condizione edenica: sono, potremmo dire, verbi pacifici, attraverso i quali traspare l’idea che l’uomo felice lavora anch’esso, ma con un lavoro che è culto (il verbo ‘avad indica sia il lavoro, sia il servizio, sia il culto, che è poi servire Dio). Ed è, quello dell’uomo edenico, un lavoro responsabile: si custodisce una cosa che non è propria (e infatti il mondo appartiene a Dio), e che si deve restituire, possibilmente migliorata, certo non peggiorata.

c) Dunque: all’uomo non è dato un potere oppressivo, arbitrario, assoluto, vendicativo, né è data facoltà di sfruttamento della terra e degli animali. L’uomo è signore del mondo (cfr. Salmo 8), ma lo è come mandatario di Dio che vide ciò che aveva creato come buono e bello (Genesi 1,25): “Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona”. L’uomo mantenga dunque e rafforzi questa bontà! Per questo all’uomo non è concesso di cibarsi uccidendo gli animali: per nutrirsi farà ricorso alle piante erbacee che hanno un fusto che culmina con un seme, cioè i cereali e gli alberi da frutto, mentre l’erba è per il pascolo e il nutrimento degli animali (cfr. Genesi 1, 29-30). Gli esseri che hanno nefesh (sangue, vita, anima) non possono servire da cibo agli uomini, perché nella volontà creatrice di Dio il cosmo vive di un rapporto basato sull’assoluto rispetto della vita. Si delinea qui la promessa del mondo voluto da Dio, il mondo secondo Dio, quel mondo che i profeti invocheranno e descriveranno come era messianica, un mondo riportato all’integrità, il mondo degli ultimi tempi in cui “il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli; il leone si ciberà di paglia, come il bue; il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi” (Isaia 11, 6-8).

Il progetto di Dio attende il consenso della libertà dell’uomo: Genesi 9, 1-5

Genesi 9, 1-5: (1) “Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra. (2) Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. (3) Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe. (4) Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue (nefesh). (5) Del sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello»”.

Sì, Genesi 1, 28-31 è il mondo voluto da Dio, ci dice il racconto della creazione, ma per ora noi constatiamo un mondo abitato dal dolore, dalla sofferenza, dalla morte, dal male. In un mondo in cui si consuma il peccato, in cui perfino il Creatore si pente di aver creato (Genesi 6, 5-7), in cui nemmeno il diluvio può estirpare la violenza e l’ingiustizia dal cuore, anche l’animale è concesso come cibo all’uomo. Ma questa è una concessione, non l’intenzione, il télos supremo di Dio espresso nel comando all’umanità: “Ecco, io vi do ogni erba, ogni albero: saranno il vostro cibo” (Genesi 1,29). Questo poter mangiare carne da parte dell’uomo deve essere sempre colto come concessione transeunte, come provvisorio e sofferto adeguamento di Dio alla malvagità del cuore dell’uomo e alla necessità del bisogno, e deve essere contrassegnato da un gesto, il non mangiare sangue, che indichi come l’uomo non è padrone della vita animale. Questo gesto sarà normato dalla legge affinché la macellazione non significhi mai dominio totale dell’uomo sugli animali, bensì responsabilità dell’uomo nei confronti della loro vita. E’ chiaro: il problema non è formale, ma sostanziale. Non basta, con ipocrita malizia, astenersi dal sangue dell’animale ucciso per deresponsabilizzarsi circa quella vita: il valore semantico del termine nefesh, oltre a “sangue”, comprende anche “respiro”, “anima”, “vita”. Potremo riassumere in questo modo: uccidere per mangiare sembra necessario nel mondo come noi lo conosciamo, influenzato dalla corruzione, dalla malvagità e (ma non sempre) dal bisogno. Ma un simile stato di cose non è quello che Dio volle originariamente. Persino quando uccidiamo in uno stato di necessità (per non morire di fame) dobbiamo ricordarci che le vite che prendiamo non ci appartengono e che ne siamo responsabili di fronte a Dio. Uccidere è sempre e comunque un fatto grave, per Dio: quando dobbiamo uccidere per sopravvivere possiamo farlo, ma quando non è necessario dobbiamo vivere in modo diverso. Della vita spezzata di ogni creatura da noi o per noi dovremo rendere conto davanti a Dio. In passato molti – tra cui sicuramente gli stessi compositori biblici – hanno pensato che uccidere per mangiare fosse essenziale per poter sopravvivere. Ma adesso sappiamo che, almeno per coloro che vivono nell’occidente ricco, è perfettamente possibile sostenere una dieta salutare senza fare alcun uso di prodotti animali.

L’uomo, co-creatura relazionale: Genesi 2, 7-22

Genesi 2, 7-22: (7) “Allora il Signore Dio plasmo l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. (8) Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. (9) Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare (…). (15) Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse. (…) (18) Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». (19) Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. (20) Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. (21) Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. (22) Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo”.

Ciò che emerge con evidenza dalle prime pagine della Genesi è innanzitutto la co-creaturalità tra uomo, animali, piante e cose, sicché la terra in un certo senso è matrice dell’uomo. Non è madre, perché Dio ha creato l’uomo liberamente, senza un consenso della terra, ma la solidarietà creaturale, l’immanenza tra “terra” e “terrestre” è subito affermata (adam origina da adamà, suolo, come homo da humus, terra). L’uomo viene dalla terra, è fatto di terra, ritornerà alla terra, sarà di nuovo terra! Quest’uomo, in cui è immesso da Dio un soffio di vita, è preso e posto in un giardino per dimorare e riposare. Qui germogliano altre creature e qui vengono creati gli animali, perché non è bene che l’uomo sia solo. L’uomo è veramente tale quando è in relazione, e gli animali – pure plasmati dalla terra – vengono posti in relazione con lui che ad essi dà il nome (il nome è, nella concezione semitica, l’essenza dell’individuo). Sì, gli animali non saranno sufficienti per l’”umano”, che solo nella dualità intrinseca maschio-femmina troverà il suo pieno sviluppo, ma gli animali sono già un aiuto per lui, perché ricevendo il nome ricevono la forma della relazione con l’uomo, ricevono un “volto” nella molteplicità dei viventi. L’uomo, donando un nome all’animale, entra in relazione e in dialogo con lui, lo riconosce come un essere vivente di fronte a sé. Dunque: l’uomo, per essere se stesso e per avere una vita veramente umana, ha bisogno di una “comunità” (non è lui, ma Dio che lo constata!) e questa comunità comprende anche gli animali. All’umano non basta l’animale, ma non basta neanche solo l’altro polo sessuale.

C’è dunque co-creaturalità tra uomini e animali, perché creati a vivere insieme, in relazione, a dividere lo stesso spazio terrestre e a morire insieme dopo una vita piena di relazioni: uno stesso destino infatti legherà uomini e animali, i quali – dice Qoelet (3, 19-21) – avranno la stessa sorte: “Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. Chi sa se il soffio vitale dell’uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra?”. Se in Qoelet non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, nella Genesi il rapporto tra uomo e animali non è paritario, ma non si configura neppure come rapporto tra un soggetto e un oggetto, perché entrambi restano soggetti, anche se la relazione resta asimmetrica. E’ l’uomo che dà il nome all’animale e non viceversa, ma l’animale è anche un aiuto per l’uomo. Per vivere la sua avventura, l’uomo ha bisogno di aiuto, e di aiuto “altro”, sicché l’uomo ha bisogno della donna, la donna ha bisogno dell’uomo, gli umani hanno bisogno degli animali e tutti hanno bisogno gli uni degli altri. Ogni creatura è buona, recita l’inno creazionale di Genesi 1, ed è solidarmente che tutte le creature animate sono benedette e ricevono in dono la terra: non l’una senza l’altra, non l’uomo senza l’animale! Il problema serio nel nostro rapporto con gli animali è che la nostra visione e percezione, i nostri occhi sono ostruiti; non fosse così, tutto ci apparirebbe opera di Dio, in relazione con lui. Noi dobbiamo ritrovare Dio al cuore della vita, vederlo all’opera nella terra da lui creata, in relazione con tutte le creature. Dovremmo esercitarci alla conoscenza degli esseri, per imparare la contemplazione della natura, per avere lo stesso sguardo di Gesù quando osservava gli uccelli dell’aria, la chioccia che raduna i pulcini, le piante da frutto messaggere dell’estate, i gigli dei campi più eleganti di Salomone…

Scrive l’antropologo francese Claude Lévi-Strauss: “Ancor oggi, si direbbe che in noi è rimasta la confusa coscienza della primitiva solidarietà tra tutte le forme di vita. Niente ci sembra tanto importante quanto il fatto di imprimere il sentimento di questa continuità, sin dalla nascita o quasi, nello spirito dei nostri bambini. Li circondiamo di simulacri di animali di gomma o di peluche, e i primi libri che gli mettiamo sotto gli occhi mostrano loro, ben prima che li abbiano mai incontrati, l’orso, l’elefante, il cavallo, l’asino, il gatto, il cane, il gallo, la gallina, il topo, il coniglio…come se fosse necessario imprimere nei nostri piccoli, sin dalla più tenera età, la nostalgia di una unità che riconosceranno ben presto perduta”.

L’alleanza è con ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra: Genesi 9, 8-17

Terminiamo questa veloce riflessione sulla Genesi ricordando che tuttora vige l’alleanza noachica, quella stabilita da Dio con ogni essere che vive in ogni carne fino alla fine del mondo: “Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra»” (Genesi 9, 8-11). Di questa alleanza c’è un segno che vediamo noi uomini insieme agli animali alla fine di ogni temporale, e che ci commuove entrambi: “L’arcobaleno sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra” (Genesi 9,16).

Sì, nell’intenzione di Dio il mondo era armonia, pace e solidarietà tra co-creature, ma quel che è stato ed è contraddice questa intenzione. La coscienza cristiana deve tuttavia credere, deve malgrado tutto sperare che la volontà di Dio permanga, e che la sua alleanza con gli uomini e con tutti gli esseri viventi, pesci, uccelli, bestiame e bestie selvatiche costituisca il télos della storia: “In quel tempo farò per loro un’alleanza con le bestie della terra e gli uccelli del cielo e con i rettili del suolo: arco e spada e guerra eliminerò dal paese; e li farò riposare tranquilli” (Osea 2,20).

In attesa di quel giorno, mentre vediamo un animale soffrire, il nostro cane morire, gli uccelli sul davanzale che mangiano le briciole del nostro pane, dobbiamo credere che Dio si dà pensiero degli animali, li nutre, e quando muoiono non è lontano da loro: “Guardate gli uccelli del cielo, poiché non seminano, né mietono, né raccolgono in granai, e il Padre vostro li nutre…Due passeri non si vendono per un soldo? Eppure non uno di essi cadrà a terra senza il Padre vostro” (Matteo 6,26/10,29) perché “Uomini e bestie tu salvi, Signore” (Salmo 36,7). Dio ha pietà degli animali presenti nella Ninive che è questo mondo: “Non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere tra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?” (Giona 4,11).

Davvero, noi uomini dovremmo saper riconoscere negli animali dei “compagni di viaggio”. L’immagine biblica di Tobia che parte per un lungo viaggio accompagnato da un angelo e dal suo cane: “Il giovane partì insieme con l’angelo e anche il cane li seguì e s’avviò con loro” (Tobia 6,1), è parabola del nostro cammino sulla terra, durante il quale gli animali, non solo gli “angeli custodi” o – ma non sempre è dato! – gli altri uomini, ci sono compagni. Gli animali sono una presenza, e spesso, soprattutto per le persone più povere e semplici, sono aiuto, compagnia e consolazione. Viene in mente la commovente storia del povero che possedeva soltanto una piccola pecora che egli aveva allevata: “gli era cresciuta in casa insieme con i suoi figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno; era per lui come una figlia” (2 Samuele 12,3). E questa pecora gli viene sottratta da un ricco che la uccide e ne fa una vivanda per un suo ospite. Si tratterà anche di una parabola narrata dal profeta a David per portare il re a riconoscere l’empietà del suo comportamento nei confronti di Uria l’Hittita, ma dietro di essa si intravede un non-detto, fatto di vicinanza e di comunicazione fra uomo e animale, che è il vissuto di tanti, forse di tutti, in ogni tempo e in ogni luogo. Perché, appunto, l’animale è un compagno di viaggio per l’uomo.

Dall’antropocentrismo come dominio all’umanesimo come responsabilità

L’antropocentrismo tirannico di antica tradizione che considera esclusivamente gli interessi dell’uomo e disprezza il desiderio di vivere (e di vivere bene) degli animali, è dunque per i cristiani fermamente da rifiutare. Ancor più se quell’antropocentrismo ha pretese teologiche. Ancor più se quelle pretese teologiche non hanno corrispondenza con la Bibbia ma, semplicemente, con la tradizione ecclesiastica. Dice Gesù ai farisei e agli scribi: “Lasciando da parte il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini” (Marco 7,8). Accettabile e desiderabile è una nuova forma di umanesimo – al servizio della sofferenza – che non solo è da difendere ma è praticamente essenziale se la creazione deve essere, come dice Paolo, liberata dai figli di Dio: “La creazione (animali/piante) stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Paolo, Romani 8, 19-23). II nuovo tipo di umanesimo di cui abbiamo bisogno deve assolutamente rifiutare l’idea che gli esseri umani siano la misura del valore delle altre creature. II nostro compito è quello di percepire che ciò che noi siamo e ciò che gli altri esseri sono fa realmente parte della creazione. Nella genesi del mondo Dio modella gli animali prima dell’uomo ed esprime il loro bene senza l’uomo: essi sono fatti da Dio e per Dio e sono benedetti da Lui come “cosa buona” (Genesi 1,25). Solo dopo “Dio creò l’uomo a sua immagine” (Genesi 1,27).

L’essere fatti ad immagine di Dio vuole dire “essere moralmente come Dio”, e questo enorme privilegio implica il più alto esercizio della responsabilità: significa che l’uomo deve avere cura della creazione, compresi gli animali, come fa Dio. E’ in questa luce che il suo dominio deve essere inteso. Nella responsabilità consiste lo speciale valore degli uomini: “voi valete più di molti passeri” che tuttavia mai sono abbandonati da Dio; “quanto più di una pecora vale un uomo!” e tuttavia la pecora riceve cure amorevoli dal proprio padrone dopo essere caduta in un fosso (Matteo 10,31/12,12). Ogni qualvolta che ci troviamo in una posizione di potere su degli indifesi, il nostro obbligo morale di essere generosi e solidali aumenta in proporzione al grado di debolezza dei soggetti in questione. Se il nostro potere sugli animali ci conferisce un qualche diritto, esso può essere solo il diritto di servire. E ciò in conformità all’esempio e all’insegnamento di Gesù: “Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; portando la somiglianza con l’uomo, condividendo l’umano destino, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce” (Paolo, Filippesi 2, 5-8). La presunzione dell’intelligenza è la vera stoltezza davanti a Dio. Il “primato della razionalità”, che vantiamo di possedere, si esprime nell’umiltà. Infatti: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio” (Paolo, 1 Corinzi 1, 27-29).

Se prendiamo a cuore questo paradigma della generosità possiamo percepire il senso morale delle nostre relazioni di potere con la creazione non-umana. Il tipo di dovere rivelato da Cristo è sempre e comunque il dovere del “più alto” di sacrificarsi per il “più basso”; per il forte, il potente, il ricco, si tratta di dare a coloro che sono deboli, indifesi e poveri. E’ la pura e semplice vulnerabilità degli animali, cui corrisponde il nostro potere assoluto su di essi, che impone la generosità morale. Noi dobbiamo essere presenti alle creature non-umani come Dio è presente a noi. Quando parliamo di superiorità umana parliamo di qualcosa di gran lunga più simile al servizio (inteso in senso cristiano) che alla dominazione. Non ci può essere potere senza servizio e viceversa. E ciò vale per l’uomo nei confronti tanto del proprio simile quanto nei confronti di ogni altra creatura non-umana con la quale Dio ha stretto la sua alleanza: “Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi; con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca” (Genesi 9, 9-10). Il nostro valore speciale nella creazione consiste proprio nell’essere utili agli altri: “Ma il più grande di voi sarà vostro servitore” (Matteo 23,11); “Se qualcuno vuole essere primo, sarà ultimo di tutti e servitore di tutti” (Marco 9,35); “Chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore, e chi vuole tra di voi essere primo, sarà schiavo di tutti; perché anche il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Marco 10, 43-45); “Il più grande fra voi diventi come il più giovane, e colui che comanda come colui che serve. Infatti, chi è più grande, colui che è steso a mensa o colui che serve? Non è colui che è steso a mensa? Ora, io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Luca 22, 26-27); “Se dunque io vi ho lavato i piedi, che sono il Signore e il Maestro, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Infatti, vi ho dato un esempio, perché come io ho fatto a voi, facciate anche voi” (Giovanni 13, 14-15).

Gesù e gli animali

Nei Vangeli non sono riportati esempi di Gesù che mangia carne. La sola eccezione possibile riguarda la Pasqua ebraica stessa, ma non è completamente certo che Gesù abbia mangiato il cibo tradizionale di quella festività. La maggioranza degli esegeti del Nuovo Testamento, tanto cattolici che protestanti, sostiene che non è possibile, oggi, da un punto di vista storico, stabilire se il banchetto di addio di Gesù avvenne o meno nel mezzo di una celebrazione pasquale. Troviamo questa discrepanza fin dalla Chiesa antica: essa deriva dalle differenti indicazioni di Giovanni e dei Vangeli Sinottici. Secondo Giovanni (18,28) la festa di Pasqua non coincide con il giorno dell’ultima cena, ma con quello seguente. Inoltre, recenti scavi sul Monte Sion hanno dimostrato che la zona del Cenacolo apparteneva agli Esseni, i quali mettevano a disposizione delle sale per gli ospiti. La cena essena escludeva rigorosamente la carne che era bandita anche nella celebrazione pasquale: i tredici avrebbero consumato un pasto vegetariano. E ciò è perfettamente coerente con la figura del Cristo, il quale propone se stesso come agnello sacrificale: l’Eucarestia non avrà più collegamento con i riti cruenti del Tempio, ma con il pane e il vino dell’ Ultima Cena (per la questione vedi Mario Canciani, Nell’arca di Noè, Carroccio).

Cristo tuttavia mangia del pesce: qualche volta può essere giustificabile uccidere del pesce per mangiarlo, in situazioni di necessità. Una situazione del genere presumibilmente si verificò nella Palestina del I secolo, dove semplicemente i fattori geografici sembrano indicare una scarsità di proteine disponibili. Tale risposta sarebbe compatibile con la prospettiva biblica dell’uccisione permessa in circostanze di reale necessità. Perciò possiamo contemplare la reale possibilità che Gesù partecipò all’uccisione di qualche forma di vita per sopravvivere. Possiamo dire che la parte umana del Suo essere necessitò, in un particolare momento storico, di un’azione del genere per poter restare in vita. Ma anche se noi accettiamo che uccidere per mangiare possa essere giustificato in quelle situazioni di reale necessità per la nostra sopravvivenza come nel caso di Gesù, tutto ciò in nessun modo ci esonera dal peso di ciò che presentemente facciamo agli animali in condizioni sostanzialmente diverse. Quest’ultimo punto è molto importante e non deve essere trascurato. Nel passato, come nel presente, ci possono essere stati dei periodi in cui difficilmente si può immaginare un’esistenza umana priva di nutrimento carneo. Ma dove noi abbiamo la possibilità morale di vivere senza ricorrere alla violenza, abbiamo il dovere di farlo.

Sarebbe comunque sbagliato dare l’impressione che la vita e l’insegnamento di Gesù siano una delusione per quel che riguarda l’illuminato trattamento degli animali. Mentre è vero che c’è una gran quantità di cose che non sappiamo circa i precisi atteggiamenti di Gesù verso gli animali, c’è un fortissimo filone del suo insegnamento etico che concerne la supremazia della misericordia verso i deboli, gli indifesi e gli oppressi. Non sono degni della nostra compassione gli animali che vengono cosi duramente e comunemente sfruttati nel nostro mondo di oggi? E inoltre, spesso si trascura il fatto che nei Vangeli Canonici Gesù è frequentemente presentato mentre si identifica con il mondo degli animali. La Sua nascita, se si deve credere alla tradizione, ha luogo nella dimora della pecora e del bue. Come afferma Marco (1,13), il Suo ministero inizia nel deserto “tra le bestie selvatiche” come intento a continuare la tradizione di Isaia che vede l’era del Messia come un periodo di educazione alla riconciliazione tra l’uomo e la natura. Il Suo ingresso trionfale in Gerusalemme avviene in groppa ad “un umile asino” (Matteo 21,7). Per Gesù è lecito “compiere il bene” durante il sabato, il che include soccorrere un animale caduto in un fosso (Matteo 12, 11-12). Persino i passeri, venduti per due soldi nel Suo giorno, non vengono “dimenticati di fronte a Dio” (Luca 12,6). Il suo amore per gli abitanti di Gerusalemme è come quello di una chioccia che raccoglie i pulcini sotto le sue ali (Matteo 23,37). La Provvidenza si estende all’intero ordine creato, e la gloria di Salomone e tutte le sue opere non possono essere comparate a quelle dei gigli dei campi (Luca 12,27). Così Dio si occupa di tutta la Sua creazione, tanto che “le volpi hanno le loro tane, e gli uccelli dell’aria i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Luca 9,58).

A caccia con Gesù?

Spesso si sente ripetere che le leggi di natura rivelano l’ordine delle cose voluto dal Creatore e che è cosa buona conformarsi ad esse. Secondo i sostenitori di questa tesi, tutti mangiamo e veniamo mangiati: questo ciclo naturale è provvidenziale e benedetto da Dio. Non si farà peccato se, intuendo nella legge universale della predazione una benevolenza di Dio, ci si adatterà ad assumere – come creature – la nostra parte di violenza. A livello morale, il problema non è se uccidiamo, ma se uccidiamo con riverenza, con rispetto, con gratitudine, consapevoli del “dono” che l’altro ci fa. D’altra parte, si conclude, persino la divinità viene mangiata, in questo mondo. La vita che mangia altra vita non è un aspetto sfortunato del mondo naturale da tollerare tra la creazione e il compimento finale. Piuttosto, Dio veramente vuole e benedice un sistema di uccisione reciproca.

Il primo argomento in risposta a questa concezione confuta l’identificazione legge-di-natura/legge-di-Dio: che ci siano bellezza, valore e bontà nell’ordine creato è contemplato dalla dottrina cristiana, mentre non è contemplato che la creazione sia giusta così come è e che sia completa in se stessa. Se la predazione fosse il volere di Dio, Gesù avrebbe manifestato e giustificato questa relazione predatore/preda. Un vangelo del genere sarebbe sostanzialmente diverso da quello che abbiamo oggi. Gesù non si limiterebbe a mangiare qualche pesce, ma festeggerebbe con vitelli ed agnelli. Gesù, in accordo con il Vangelo della Predazione, sarebbe il macellaio per eccellenza. Incoraggerebbe il sacrificio di animali tra i suoi discepoli anziché invitare i farisei a desistere da tale pratica (Matteo 12,7): “Se aveste conosciuto che cosa significa: «Misericordia voglio e non sacrificio» (Osea 6,6) non avreste condannato coloro che sono senza colpa”. Invece di scacciare fuori dal Tempio coloro che operano i sacrifici animali il Gesù del Vangelo della Predazione li avrebbe tenuti al suo interno (Matteo 21,13): “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri/assassini” (in greco lestès si traduce con “ladro”, ma anche “assassino”; il versetto originale ebraico è più preciso del greco: mearat parisim significa “spelonca di assassini” e non “di ladri”, alludendo con ciò ai sacerdoti del Tempio che “opprimono lo straniero, l’orfano, la vedova e spargono il sangue innocente in questo luogo sacro” (Geremia 7,6), il sangue incolpevole degli animali assassinati nei sacrifici religiosi). La citazione che caratterizza di più il suo ministero non sarebbe “il buon pastore che dà la sua vita per il suo gregge”, ma piuttosto “il buon pastore che macella – con gratitudine – quante più pecore può”. Anziché cominciare la sua missione, come dice Marco (1.13), “tra le bestie selvagge”, simboleggiando con ciò la riconciliazione con la natura, Gesù il Predatore sarebbe tra le bestie selvagge, pronto con arco e freccia. Invece di raccomandare di soccorrere un animale caduto in un burrone, Gesù Predatore si soffermerebbe sull’inevitabilità di questo piano divino di morte, declino e malattia di così vasta portata. Indubbiamente, se la predazione è una “benedizione” di Dio, Gesù Predatore offrirebbe un esempio singolare anche in ambito umano. Anziché fare amicizia con i peccatori o perdonare le prostitute, egli sarebbe il primo a lanciare la pietra. Invece di sanare il malato, egli potrebbe solo approvare l’efficienza dei sistemi ecologici (la sopravvivenza del più forte ai danni del più debole) pensati da Dio. Invece di resuscitare Lazzaro, Gesù il Predatore si limiterebbe a commentare che la morte è una necessità naturale e una benedizione di Dio. Invece di apprezzare la buona novella dell’imminente Regno di Dio, la proclamazione sarebbe: “Mangiate e siate mangiati. Ricordate: uccidere è un’esperienza spirituale. Se uccidete con riconoscenza, state agendo per volontà divina come forza cosmica di rinnovamento e sacrificio”.

Il secondo argomento contraddice l’interpretazione della eucaristia come difesa della predazione, concetto sinteticamente espresso nella formula “anche la divinità si offre come vittima e desidera essere mangiata, in questo mondo”. Ammesso che la sacra comunione possa essere intesa in questi termini letterali, dobbiamo distinguere tra lo scegliere di morire e l’essere uccisi. Chi sostiene che la predazione è un “dono” che la vittima fa al suo carnefice non comprende che ciò che viene sottratto senza la volontà del soggetto è furto, rapina, violenza, sopraffazione. E’ un errore fondamentale, e forse ipocrita, associare la libera offerta sacrificale di Cristo con l’assassinio imposto ad altre creature. Il significato dell’ostia sacra, perciò, non è la perpetrazione del vecchio mondo del sacrificio animale, ma anzi la nostra liberazione da esso. Quello che del sacrificio di Cristo si vede rappresentato nel rito dell’ eucaristia serve per produrre una nuova possibilità e un nuovo ordine della creazione, nei quali noi possiamo essere liberati dalla nostra vecchia natura – cioè la natura stessa – e vivere insieme in uno spirito di umiltà e armonia. In breve: l’eucarestia non è un invito a sacrificare ma ad essere sacrificati. Se l’umanità può e deve essere distinta dagli animali, non è a causa di un qualche supposto diritto di uccidere, ma piuttosto perché noi uomini abbiamo il potere di servire la creazione.

Il rischio dell’idolatria

Il patto di alleanza tra Dio e gli animali (il concetto è espresso per ben sette volte in pochi versi: Genesi 9, 11-17) si oppone all’idea che noi abbiamo diritto di promuovere il benessere e la felicità umana a spese di altre creature. L’idea che gli animali esistano per nostro beneficio ed uso è moralmente grottesca come il supporre che i bambini siano proprietà dei loro genitori e possano essere utilizzati a loro vantaggio. Gli uomini sopportino da soli ogni malattia non compiendo esperimenti sugli animali, piuttosto che sostenere un sistema di abuso istituzionalizzato. Sollevare una questione di questo tipo rischia di attirare l‘accusa di insensibilità verso le malattie umane e i loro spaventosi effetti, ma deve ancora essere chiarito se la conoscenza che può prolungare o salvare la vita umana debba avere la priorità su tutto. Il riconoscimento in noi di una legge morale e di un valore spirituale importa tanto quanto la conoscenza capace di prevenire la morte e di alleviare il dolore. L’ idea che la vita umana ed il benessere degli esseri umani abbiano un così alto significato da giustificare l’uso istituzionalizzato di milioni di animali in procedimenti sperimentali che infliggono grande sofferenza dovrebbe essere definita in termini di idolatria. Gli animali nei laboratori non soffrono proprio per renderci la vita più facile e più lunga, o per sostenere i nostri desideri di sempre nuovi cosmetici o sempre nuove medicine? E gli animali non vengono dunque sacrificati per una specie che si arroga poteri divini e che considera i propri interessi come facenti indiscutibilmente parte dello scopo della creazione stessa? Demitizzando un poco la questione, potremmo dire che la nostra tendenza idolatra consiste nel credere che la stima di noi stessi sia il principale ed unico criterio con il quale giudichiamo il valore di tutte le altre creature. Se troviamo sconcertante questo linguaggio è perché abbiamo accettato, passo dopo passo, la posizione utilitaristica che accetta assiomaticamente che gli interessi dei deboli possano essere messi da parte per quelli dei più forti. L’unicità della umanità consiste nella sua abilità a diventare “la specie che si sacrifica” (non “che sacrifica”!), per esercitare la sua piena umanità come cooperatrice di Dio nella redenzione del mondo. Questa visione sfida le concezioni tradizionali del mondo che lo concepiscono come creato esclusivamente per uso o piacere umano, mentre il suo unico fine consisterebbe nel servire alla specie umana, ridotto di conseguenza al ruolo di semplice strumento. Solo il più tenace attaccamento al pensiero della tenerezza di Dio verso tutte le creature potrà liberarci dalla nostra arrogante umanocentrica concezione del nostro posto nell’universo.

Nel breve periodo, lo smantellamento di istituzioni ingiuste come quella della sperimentazione animale e dell’allevamento intensivo, e la fine di pratiche “ricreative” quali la caccia e la pesca, comporteranno una qualche diminuzione del piacere degli uomini, o di alcune sue prospettive di lavoro e persino di alcune possibilità di vita. Comunque la questione rimane non se si trae guadagno dalle pratiche attuali ma se tali guadagni non siano illeciti. Troppe persone vogliono parlare genericamente di generosità verso gli animali mentre continuano a distruggere i loro habitat, a cacciarli per sport e a mangiare la loro carne. Per apprezzare il guadagno morale derivante dal desistere dallo sfruttamento animale dobbiamo imboccare la via più lunga. Se ci chiediamo se l’umanità ci abbia rimesso nell’ammettere l’immoralità dei guadagni illeciti ottenuti dalla diffusione della schiavitù, del razzismo e del sessismo, possiamo immediatamente vedere che ci sono stati certamente dei vantaggi derivanti da questo riconoscimento che senza sacrifici non sarebbero stati possibili.

a cura di Franco Lamensa

Bibliografia
Andrew Linzey, Teologia animale, Cosmopolis
Enzo Bianchi (a cura di), Uomini e animali, Qiqajon
Mario Canciani, Nell’arca di Noè, Carroccio
Michel Damien, Un paradiso per gli animali, Piemme
Piero Stefani (a cura di), Gli animali e la Bibbia: i nostri fratelli minori, Garamond
Paolo De Benedetti, E l’asina disse…, Qiqajon