Descartes, Spinoza, Leibniz e la mente del cane

Descartes, Spinoza, Leibniz e la mente del cane da Phobos

Descartes ci aveva spiegato che nel mondo esistono due classi di enti radicalmente contrapposti.
Da una parte le menti immortali dall’altra i corpi perituri. I corpi saltellano come palle impazzite nello spazio. Le menti sono un’altra cosa. Appartengono al reame dello spirito. Noi umani possediamo le menti e siamo perciò speciali. Noi pensiamo – ergo – siamo. Gli animali, le piante, le rocce sono, invece, parte di una grande macchina dominata dalla plumbea necessità. Non pensano. Descartes appare come un innovatore ma in effetti preserva l’eterna “patacca” dell’unicità della specie. Una “patacca” così dura a morire che sussiste ancora in questi foschi tempi ratzingheriani e coranici. Creando la divisione tra le due classi di enti, il filosofo, salvaguardava lo spazio della fede mentre lasciava libero il mondo delle cose alla ricerca scientifica. Se tratti con gli automi puoi far loro quello che vuoi. Animali, piante e rocce sono cose inanimate concesse dalla volontà del Creatore a noi umani per il nostro piacimento.

Il rigido dualismo cartesiano impensieriva molte menti. Descartes ci aveva rifilato la bufala degli animali automi. Leibniz più tardi si precipiterà, preoccupatissimo, a vedere un cane parlante. Se il cane parla va a ramengo tutta l’impostazione antropocentrica costruita da secoli. Se parla ha un’anima.

Il cane ha una mente? Si domandava Descartes. Se ha una mente allora bisogna aprirgli un varco in paradiso, e se gli apri un varco in paradiso finisci sul rogo dell’inquisizione: finisci con le natiche abbrustolite come Giordano Bruno. La Chiesa è lapidaria: gli animali non hanno un’anima. Allora Descartes escogitò la risposta adeguata. Le bestie sono come organetti, e se tu tiri un calcio a un organetto, l’organetto suona. Se tiri un calcio a un cane ha una reazione simile a un organetto. Molle e marchingegni carnali fanno rumore. Se lo tiri a tua nonna: no; tua nonna è differente, ha un’anima immortale, lei piange perché è speciale e non sono le molle interiori a farla lamentare, ma sono le strutture materiali interne – bulloni e macchinari di carne – che provocano il lamento delle bestie. Ma i “bruti” non provano nulla. Il resto è roba da poveracci. Quindi, torturate quanto volete: sventrare un cane è come sventrare una bambola.
L’universo cartesiano è come un grande orologio messo in moto da Dio.

Voltaire ascolta e s’incazza da morire. E sbalordito dice: “che vergogna, che miseria, aver detto che le bestie
sono macchine prive di coscienza e sentimento…” e dice: noi cessiamo presto di provar compassione per gli animali. Il bambino che piange vedendo il primo pollo sgozzato, la seconda volta che lo vede scannato ride. E troverà normale, crescendo, lo spettacolo indecoroso dei pezzi di animali appesi a ganci nelle macellerie; considererà “quell’orrore, spesso pestilenziale” come una benedizione del Signore e lo ringrazierà per quei brandelli sanguinolenti di carne cucinata. E mai che uno di questi odiosi “tartufi” (filosofi) abbia mai detto una parola a riguardo.

Prima di lui Montaigne aveva raccontato che mai prendeva una bestia viva senza liberarla e aveva citato Pitagora che comprava i pesci dai pescatori per liberarli. Nell’ “Apologia a Raimon Sebond” aveva scritto che è “assurdo e presuntuoso” porsi al di sopra degli animali e nei “Saggi sulla crudeltà” aveva affermato che dobbiamo rispettare non solo gli animali ma anche le piante e gli alberi.

Tutto deriva dall’idea delle cose materiali e le cose non materiali.
Questa dicotomia provoca idee così bizzarre che viene da piangere dal gran ridere
Un esempio? Malebranche per spiegare come il mondo invisibile interagisce col mondo della materia si inventa l’intervento di Dio per ogni movimento. Tu starnutisci e ti porti il fazzoletto al naso ed è Dio che interagisce. Ti masturbi ed è Dio che interagisce. Altrimenti come potrebbe un corpo muoversi se la mente è esterna?
Descartes è ancora più bizzarro: ci dice che quello che fa interagire mente e corpo è la ghiandola pineale, un organo unico, un eccezionale strumento del corpo che fa interagire le operazioni della mente con quelle del corpo. La ghiandola pineale è un centro di smistamento delle voglie. Desideri accarezzare tuo figlio? La ghiandola si attiva e fa muovere la mano che toccherà il capo del piccolo. Spinoza reagirà con scherno alla “patacca” cartesiana chiedendosi come hanno fatto uomini eminenti a bersi questa “ingegnosa” belinata.

Il problema serio nasce con Spinoza che fa tremare con un solo colpo tutta l’impalcatura teocratico – teologica – specista. Spinoza dice: c’è un’unica sostanza. E non lo fa per amore degli animali: delle bestie se ne fotte altamente. Dice che il dominio umano è giustificato dallo stato delle cose. Ai “bruti” puoi far quel che vuoi. Dice l’idea di non sacrificare i “bruti” è fondata su una vaga superstizione, è fondata su una “muliebre misericordia”. Nulla a che fare con la ragione, e noi umani dobbiamo cercare il nostro utile con i nostri simili e non con le bestie. Ma non nega – bontà sua – che i bruti sentano. Nega che non sia giusto servirci di loro. Insomma, se li facciamo a pezzi è sacrosanto. Punto a capo.

Però “l’empio giudeo”, come lo chiamano, sconvolge tutto il pensiero precedente in un’altra maniera.
Dice: l’idea belluina della res extensa e delle res cogitans la lasciamo ai francesi che di pippate del genere se ne intendono . E spiega che c’è un’unica sostanza, che è, de facto, Dio, la Natura e ci sono i suoi “modi”, cioè i suoi “attributi”. In soldoni per rendere l’idea chiara agli illetterati del mio livello: le pietre , gli alberi , gli animali, gli uomini sono i “modi”, sono gli “attributi” di un’unica sostanza divina. Niente più.
Dicendo questo Spinoza mette una carica di dinamite sotto le natiche della Weltanshauung teocratico – teologico – specista e cerca di farlo esplodere. E tutto l’apparato trema. Spinoza dice non siamo una specie – speciale fatta a immagine di Dio ma uno dei tanti “modi” della sostanza divina. Descartes, quindi, non è un essere speciale ma è un “modo” come il cane automa che si è inventato e che lascia torturare.

Insomma siamo giunti alla mente epifenomeno del corpo. Non siamo alla mente separata dal corpo. Ma a qualcosa che è prodotto dal corpo. E, non è finito: il filosofo ci spiega che il suo Dio ha una relazione con noi simile a quella che avete voi che leggete con le formiche che scorrazzano nel buco di casa di un taliban a Kabul. Insomma degli umani e dei vari “modi” il Dio spinoziano se ne frega alla grande.
É totalmente altro e con le nostre preghiere non ha nulla a che fare. Non ascolta. Altro che Padre Pio. Baruch rende Dio remoto ma poi dice che è in ogni cosa e che non è qualcosa di esterno e di infinitamente altro. E Leibniz si chiederà, più tardi, se questa naturalizzazione di dio non annienti la divinità.

Deus sive Natura? Spinoza per Natura intende la totalità delle nature. Insomma la Natura è ciò che rende il mondo quello che è. E con un solo colpo si libera di deità capricciose e omnipervadenti. Le rende remote ed avulse. Ed elimina il mistero dal mondo. Tutto può essere capito nei meccanismi dell’universo.
Insomma dallo Jahvè esterno allo spazio – tempo si passa alla Natura immanente del Deus sive Natura.
Dio ora è all’interno delle cose e non guata dalle nuvole. Prima di Spinoza c’erano una miriade di sostanze individuali, dopo Spinoza ce n’è una sola con i suoi infiniti attributi. L’infinità delle anime immortali è stata inghiottita da un’unica sostanza. Dicendo questo, Spinoza, pur fottendosene degli animali, provoca una rivoluzione in quanto rimuove dal reame della sostanza gli umani e li precipita nella zona grigia dei “modi” degli “attributi”. Insomma, non siamo più sostanze immortali, come ci diceva Descartes, ma parte del regno dei “modi”: siamo come le piante, gli animali, le rocce. “L’empio giudeo” precede Darwin nella sua peculiare maniera.

E l’anima immortale? Passons dice Baruch, detto Bento: tutte corbellerie dell’apparato teocratico – monoteista. Per Spinoza Dio non ha né volontà, né intelletto e l’immortalità non ha nulla a che fare con la memoria personale. Quello che afferma Spinoza provoca reazioni di violenza incredibile da parte della comunità ebraica di Amsterdam. Gli ebrei tremano; ecco che arriva il fetente che ci mette nei guai, urlano i rabbini: gli olandesi ci avevano accettato ingiungendoci di non cominciare con le patacche eretiche e questo fetente di giudeo se ne è venuto fuori col suo ateismo misticheggiante. E gli mollano un anatema fulminante. Roba da lasciare i testicoli inceneriti. Ci fotte a tutti con le sue elucubrazioni da sacrilego – urlano. Nel 1656, nell’arca della Sinagoga, lo scomunicano e lo espellono dal popolo di Israele investendolo, attraverso il rabbino Morteira, con un’onda anomala di maledizioni.

Ma non di “empio” ateismo si tratta ma di ateismo mascherato. Divinizzare la Natura e praticare un’etica da “Amor Fati”, di accettazione della vita così com’è, comporta una visione atea che fa crollare il castello di carte dell’impostazione teocratica – specista. Echeggia il futuro principio nicciano dell’innocenza del reale. E se bruci nel rogo del pensiero anime immortali, Dio, che ama ed è amato, e l’oltremondo con i suoi cherubini resta ben poco. E Baruch di Jahvè e dei suoi profeti ne fa un bel falò. Li incenerisce.

Ma come, da millenni ci dicevano che la mente è qualcosa di assolutamente speciale, ci parlavano di libero arbitrio, di anima immortale, di Campi Elisi e di differenza sostanziale con le bestie ed ora arriva un giudeo che vive in maniera poverissima molando lenti (e a livello umano risulterà il più grande di tutti i filosofi).
E ci dice che per secoli abbiamo creduto a stronzate? E il libero arbitrio?
Spinoza risponde roba da dimenticare. E fa precipitare tutto in un allegro determinismo.
Il più grande dei folosofi? Bertrand Russel dirà nella sua “Storia della filosofia occidentale” che Baruch è stato il più nobile e il più amabile dei grandi filosofi. Forse non il più grande intellettualmente ma eticamente il supremo (ma non con i “bruti”).

Quando Leibniz incontra Spinoza nel 1661, nella sua casa nel Paviljoensgracht all’Aja, il tedesco crede di aver a che fare con un filosofo blasfemo. O forse non lo crede per niente. Leibniz è una maschera vivente nasconde quello che pensa nel suo intimo. É troppo pericoloso esporre le proprie idee: si finisce male in quei tempi, si finisce sulle braci o a molar le lenti in Olanda e morire d’inedia. E lui ama troppo la gloria e il denaro. A tutto c’è un limite pensa. La filosofia è bella, ma finir sotto un ponte è semplicemente troppo.
Leibniz vive in una profonda ambiguità pur essendo luterano difende la transustanzazione contro le offese dei miscredenti e degli atei, ma morirà senza chiedere il conforto di un pastore. Crede in Dio ma nel suo Dio – monade. E finge alla grande. In ducati sonanti? Imbroglia!

Sono tempi difficili quando i due si parlano. Spinoza racconta a Leibniz dei De Witt fatti letteralmente a pezzi dal popolo che li accusava di aver venduto il paese ai francesi. Baruch, scioccato dall’orrore, narra al tedesco che era corso per protesta con un cartello con scritto “Ultimi barbarorum”, e lo aveva fermato e chiuso a chiave in una stanza il padrone di casa perché rischiava il linciaggio.

Durante l’incontro del 1661 della Paviljoensgracht, Leibniz subisce il fascino dell’“empio giudeo” e per un lungo periodo interiorizza i concetti spinoziani. Ascolta con attenzione Baruch che gli espone la sua filosofia aggiustandosi nervosamente la parrucca – baldacchino che gli copre l’immenso uovo che gli è cresciuto a dismisura sulla testa. Segue con concentrazione estrema quello che afferma l’olivastro giudeo – affetto da tisi, a causa della polvere delle lenti – che per cercare la verità ha rinunciato, come farà più tardi Nietzsche, al mondo. Spinoza lo colpisce e lo commuove. Baruch seduce.

Poi, il tedesco, ci ripensa come i cornuti.
Un’unica sostanza si chiede? E allora che succede?
No. Non va, pensa Leibnitz mentre si aggiusta il parruccone. C’è un altro mondo oltre il mondo materiale.
E quell’oltremondo è la realtà autentica che consiste di miriadi di entità immortali.
E qui subentra il dilemma cartesiano della materia che interagisce con le sostanze spirituali e il tedesco si industria a come risolverlo. Ma prima, pensa, va annientata l’idea malsana che esista una sola sostanza. E si attiva per questo scopo. Se c’è una sola sostanza e non una pluralità di sostanze va a fottersi tutto il sistema millenario cristiano – monoteista, crolla il baldacchino specista della unicità delle specie, quindi il sistema di Baruch va demolito, e Leibniz escogita l’idea delle monadi. Un’idea a dir poco fantasiosa, anzi bizzarra.

Le monadi secondo Leibniz sono entità semplici, indivisibili, elementari. Il termine è pitagorico e significa unità; Leibniz lo utilizza e lo stravolge. La monade è un centro spirituale che è base della realtà, e, creata da Dio, ha in sé uno specchio che riflette l’universo. Le monadi sono sostanze chiuse “senza finestre”, non comunicano tra loro, ma sussistono in armonia, per la volontà della monade suprema: Dio; e non interagiscono tra loro perché così facendo potrebbero alterare la loro natura. Non guardano, quindi, fuori e non possono essere guardate dentro. Pur essendo serrate in se stesse, le monadi, sono in grado di cambiamenti avendo la capacità dell’autorealizzazione. E quando sono state create, sono state create in un “lampo” e quando Dio vorrà farle svanire si dissolveranno in un baleno. Siamo alla vaga intuizione del Big Bang e della possibile contrazione annientante dell’universo.

Leibniz, inoltre, ci spiega che queste sostanze indistruttibili si dividono in tre gruppi:
Le monadi persone che hanno anima, mente, memoria e autocoscienza.
Le monadi animali che hanno un’anima ma non una mente perché essenzialmente sono prive di autocoscienza e memoria.
E le monadi delle cose che sono senza anima e senza mente.

Voltaire gli chiederà: “Davvero vuoi sostenere che una goccia della tua urina è composta da un’infinità di monadi? E che ciascuna di queste ha idee, per quanto oscure, dell’intero universo?”

Ma va ricordato che Leibniz – paradossalmente in contrasto con Spinoza che se ne fregava altamente degli animali – era un difensore dei loro diritti e aborriva Descartes per quello che aveva detto riguardo ai “bruti”.
Leibniz diceva che considerare gli animali alla stregua di automi era una cosa abominevole.
Diceva: io credo che non solo l’anima dell’animale sussista ma anche l’animale. E non condivido l’idea di Pitagora e del figlio di Elmont che immaginano la trasmigrazione delle anime. Io penso che ciò che vive non cessa di vivere. La morte come la generazione sono la trasformazione dello stesso animale, una volta “accresciuto poi diminuito”. Detto questo, sono convinto che le macchine della natura, essendo macchine fin nella loro più minima parte, sono indistruttibili. Una piccola macchina è “racchiusa in una più grande; all’infinito”. Quindi, affermo la preesistenza e la sussistenza dell’anima e dell’animale. Descartes non ci ha preso.

E c’era un’altra cosa pregevole in Leibniz: era la critica contro il dominio tecnologico che deumanizzerà e affliggerà gli umani. E la sua critica echeggia quello che Heidegger dirà riguardo l’imperialismo tecnologico.

Leibniz detestando il crollo umano nel regno dei “modi” vuole mantenere viva l’unicità della specie.
Non vuole precipitare tra animali e piante e vuole l’anima immortale soltanto per noi. Altrimenti pensa è il caos. E l’anima immortale è, per lui, la cosa più significante dell’universo, è una piccola divinità nell’universo. La mente nel senso cristiano va preservata a ogni costo. E l’ybris, la tracotanza, galoppa sfrenata. Leibniz è terrorizzato dal fatto che la filosofia dell’empio Baruch porti direttamente al nichilismo, all’insignificanza umana nell’universo. I teologi cristiani sono scioccati dalla filosofia di Baruch.
Arnaud definisce il pensatore ebreo come “l’uomo più empio e più pericoloso del secolo” perché non ammette la divina provvidenza e distrugge l’idea del premio e del castigo. E se non ci sono remunerazione e punizione tutto è permesso. Si arriva all’anarchia rivoluzionaria. Dostoevskij lo chiarirà più tardi con assoluta chiarezza: se non c’è Dio tutto è possibile.

Se si accetta l’idea che la mente non è reale ma è semplicemente un’astrazione che origina dai processi corporali si è demolito tutto. Spinoza trionfante significa che tutto è caduco, transeunte, che non esiste solidità alcuna. Che siamo nel reame delle sabbie mobili.

Ma no il mondo non è così – pensa il tedesco – Dio ci ama e noi lo amiamo. E più tardi se ne verrà fuori con l’infelice idea che Voltaire massacrerà nel suo Candide. La trovata balzana è che “questo è il migliore dei mondi possibili”. In effetti il tedesco dice un’altra cosa, afferma che dal momento che Dio doveva inserire il male nel mondo, era obbligato a creare qualcosa di opaco e non di assolutamente luminoso, e che questo nostro mondo, dato che il bene doveva essere penetrato dal male, era la soluzione più adeguata, la più possibile. Il male è necessario, dice Leibniz, è nel disegno imperscrutabile divino, ed è giusto non farsi ingannare dal “lamento della vita” perché noi siamo “tra le più felici delle creature”: siamo esseri speciali e benedetti perché conosciamo il nostro dio e lo amiamo e lui ci ama. E ci ingiunge di fare il bene comune.
Ma il suo alter ego, Polidoro, uno dei personaggi che si scontrano con gli ottimisti nei sui scritti filosofici lo contraddice: la natura è crudele: tutti divorano tutti. La natura è mostruosa e noi siamo i spietati tiranni delle altre specie. E Dio non si cura affatto di noi. É assente. Non solo, Dio prova gioia per la nostra distruzione. Polidoro parla parafrasando Spinoza? In parte. L’alter ego si agita sfrenato nella sua mente.

Voltaire farà a pezzi l’idea del “più possibile dei mondi” inventandosi il ridicolo dottor Pangloss che
impiccato, massacrato di botte, scudisciato mentre era rematore in una galera turca, alla domanda di Candido: pensate sempre che questo sia il migliore dei mondi? Risponderà: Si, non posso disdirmi. Leibniz non può avere torto. “L’armonia prestabilita è la cosa più bella del mondo; tanto quanto il pieno e la materia sottile.” Chissà che avrebbe detto se finiva a Treblinka.

Sono molti i pensatori che affrontano il problema della sofferenza animale.
Cyrano de Bergerac chiede ai suoi simili: voi dite che la vostra anima è immortale a differenza delle bestie?
Che orgoglio insolente! Da dove ricavate una simile idea? Siamo intorno al 1650 e nulla ancora è cambiato: ci chiediamo ancora le stesse cose.
Rousseau andrà oltre e dirà che l’uomo preistorico era inizialmente vegetariano e poi è disceso nell’abisso del cannibalismo. E cita san Girolamo che scrisse che Dicearno affermò che sotto il segno di Saturno, quando la terra era fertile, gli uomini non mangiavano carne, vivevano solo di legumi e frutti.
Bayle, un grande difensore dei “bruti” dice che l’anima delle bestie, innocente, senza peccato, é soggetta all’orrore che gli uomini le infliggono. Dice: noi facciamo sbranare le bestie tra di loro, le torturiamo, le scanniamo, le divoriamo, frughiamo nelle loro viscere e facciamo tutto questo per il dominio che Dio ci ha dato su di loro. La natura innocente è sottoposta alla violenza della natura peccaminosa.
Perché sottoporre un’anima innocente a tanti tormenti?
E dice: se le anime degli animali sono mortali così lo sono quelle degli uomini. Se noi siamo sostanze immortali lo sono anche le bestie.

Quando Spinoza e Lebniz si incontrano nel 1661 sono già avvenute molte cose.

Nel 1543 Copernico ha soppiantato il sistema Tolemaico. Non siamo più al centro del sistema solare,
ci siamo spostati, per ora, leggermente verso il nulla infinito. Le cose peggioreranno.
Tra il 1582 e il 1642 Galileo elabora le sue scoperte riguardanti le leggi della meccanica e dell’astronomia e nel 1632, provocando le ire dei cristiani, ci informa che è il sole al centro del sistema universale ed è la terra che gli gira intorno. Tra il 1609 e il 1619 Kepler pubblica un tomo sulle leggi del movimento planetario.
Nel 1620 gli uomini sono in grado di vedere gli spermatozoi con un microscopio. Nel 1687 Isaac Newton pubblicherà Principia informandoci sulle leggi gravitazionali e del movimento degli astri. Tra il 1680 e il 1730 lo stesso Newton e Lebniz svilupperanno – indipendentemente – il calcolo infinitesimale.

I filosofi e la mente di un cane?

Ne é passato di tempo da Copernico a quando Leibniz incontrò l’empio filosofo che gli parlò con entusiasmo della sua filosofia, mentre lui, imbarazzato e attento, si aggiustava il baldacchino che aveva in testa. Si, Copernico ci fregò la centralità spaziale ma ora ci stiamo muovendo verso la notte infinita.
Laurence Krauss, un noto fisico della Case Western Reserve University e autore di “The Physics of Star Trek” ci informa che c’è abbastanza materia nell’universo per renderlo piatto. E che l’universo piatto è armoniosamente bilanciato tra l’energia positiva cinetica – che è associata all’espansione dello spazio – con l’energia potenziale negativa – che è associata con l’attrazione gravitazionale della materia nell’universo – così che la totalità dell’energia è a livello di zero. Insomma, l’energia dominante dell’universo non è la materia che conosciamo, ne quella oscura, la “dark matter”, ma quella associata con lo spazio vuoto.

In ducati sonanti? L’intera immagine dell’universo è cambiata: l’accelerazione sta trascinando via tutto quello che vediamo, la nostra galassia è inghiottita dalla notte infinita. E ai limiti della galassia sussistiamo noi. Con le nostra unicità ed eccezionalità. Bacilli in un pianeta microbo. Microrganismi vaganti su un germe.

L’anima immortale “ e le più felici delle creature”: speciali, benedette, uniche?
L’anima immortale come la cosa più significante dell’universo? Una piccola divinità nell’universo
Parafrasiamo Totò?
Ma fateci il santo piacere!

Paolo Ricci

18-1-2008