Sezione: Poesie
Il “ground” metafisico è strutturato
su scarnificate ossa:
io canto il dolore del mondo
gorgheggio il vuoto luminoso delle cose:
qui vascelli inestinguibili naufragarono.
E non so come descrivere
questo sontuoso eremitaggio;
non so come aprirmi
al caos delle pietre d’argento
nella “Baia dei Ciottoli Bianchi”
tra gli scogli muscosi del livido mare.
Ecco: oscilla il miracolo del Caso
traballante tra abeti e betulle
nella foschia degli aceri
anche qui
sospeso nell’infinità
sospira il nulla.
Com’era differente, allora, il mondo
necessitano eoni prima che la parola ritorni
e le cose pervengano intrise di luce.
Numi incartapecoriti ci hanno relegato
in un nulla afoso e curiale
ci hanno tramandato cose pavide e derelitte
Il fiume Oceano ha depositato sui miei piedi
una bottiglia di plastica sbudellata dalle onde
e un preservativo lavato e ripulito dal mare.
Eh no! Gli angeli non ci sosterranno
tra questi disintegrati vascelli.
Tutto è triste,
in un senso,
tutto è sospeso
nella melanconia
invisa dai Padri
E come pervennero le parole?
Giunsero filiformi, obnubilate,
ammantate di nebbia.
Ah le moleste passioni del secolo!
L’acuminarsi della notte dell’anima!
L’agitarsi di pallide tende
scosse dal vento
mentre il tempo desolato
si appoggia allo stipite
di una romanica finestra.
Ma tu hai intravisto,
nel grigiore esplodente della luce,
gli spiriti che si sono dissolti in me?
Francesco d’Assisi stesso
è precipitato nella notte:
il nobile azzurro – cielo si è spento
obnubilato da un azzurro – oscuro
e l’oscurità ha ridato al santo eleganza e nobiltà.
Nella diafanità lunare
la fortezza è intrisa di nuvolaglia
e tempo maledetto
Dalla Torre dell’Angelo Dannato
intravedo la baia invasa
da un rimuginare tumultuoso e nerastro.
Ecco la domanda sublime,
avvoltolata in preziosi francesismi:
ma io che cazzo ci faccio qui?
Il baleno lo conteniamo nell’anima
in quella
malevolenza luminosa
audacemente
ci bilanciamo
Quante inutili parole,
nel tempo dell’eccezionalità,
quando l’Essere
si presenta nella mistificazione
Questo conglomerato vittoriano,
come una tela di Turner,
si disintegra nella diafanità.
Si destruttura questa fragile
entità costituita da case vertiginose
in una luminescenza giallognola
ma nel crepuscolo
questa cittadina tardo gotica
si sfalda in una luce di fuoco
come una reminiscenza del Tartaro
In queste amenità,
la percezione molliccia della mente,
crea condizioni ultraterrene:
la madonna bizantina nella guglia muscosa
sembra tremare di freddo.
Quando la furia si placherà
si incenerirà il tempo perverso.
All’altezza di Shag Point un gabbiano
ha messo in fuga un falco.
L’altra notte ho sognato
la città lignea di Attila.
Le cose si sono stemperate
nella luce del sole
ed esprimono il proprio vuoto
nella lucentezza sfaldante.
Ecco: mi sono dissolto e rinasco
Sono l’essenza che si manifesta
dal groviglio lussureggiante.
Sono morte e resurrezione?
Non so.
Presso i nove altari
radici di pioppo
fuoriescono dalla mia gola
Presso l’angelo ottuso
della Rivelazione non Rivelata
divengo Bathomet
ammantato di dissoluzione
Si. Mi hanno amorevolmente
preservato dall’iconoclastia floscia
di Cromwell;
e tutto si dissolve
nell’unicità del bosco sacro:
viti, foglie di acanto, radici
fluiscono dalle mie narici
Con che pedanteria l’Oscuro manda messaggi:
una volta ero indissolubilmente
intrecciato tra i fiori del tempo
e germogliavo nella brillantezza verdastra;
una volta ero il Guardiano decapitato della Foresta
ora, fanciulli ultramondani mi danzano
intorno avvolti dall’edera.
Su foglie di quercia,
come la sibilla,
ho trascritto la trama
fluttuante del tempo
Il senso del bosco sacro?
Ciò che tra le foglie di lauro
provoca il Grande Risveglio.
Le cose bisogna interiorizzarle
spingerle nel fondo luminoso dell’anima
Queste pietre, nella grande spiaggia,
sembrano l’ “haretaki” di Hoshun -in,
un giardino zen, cullato
da uno svogliato piovigginare
Le colline di rame
sono puntellate
da candidissime pecore
e in fondo
é il tumultuare dell’Oceano
Precipizi muscosi
discendono verso rocce nere
e ciottoli bianchi imbevuti
dalla schiuma del mare.
Nec feurat nudas paena videre deas:
la domanda dell’esistere
è sopita in un dolce rassegnazione
Ho immerso la mia colpa del nascere
nel lavacro dell’anima,
ho sciacquato nel liquido amniotico
le mie mani
le ho nettate nella stagnazione
di una luminosità velata.
Terra sognante,
è tutto immerso in uno squarcio di sole,
si apre un mondo tra scarse folgorazioni
e lo scalpitare focoso del destriero dell’anima.
Nubi violacee saettano
oltre il crinale del monte,
non ricordo dove ascoltai questa nenia
che mi giunge
come un cantico trasecolato
tra cose che si eclissano
in turpi sonnolenze.
L’eroe eponimo dice:
il fiume oceano è una tavola oleata
e nubi benigne saltellano
oltre l’orizzonte di fuoco
Una torre sbriciolata?
Le armate della notte,
provenendo dai bassifondi dell’anima,
l’hanno attraversata fendendola.
Ora è pura maceria.
Ecco. Mi avete sostenuto fino all’ultimo
E come mi colpii
vedervi, nella bruma, per attimi
per poi repentinamente svanire.
La voce estatica
risale
insinuandosi nel centro del petto
ascende
verso il nucleo abbagliante
che, nel centro toracico, contiene la luce.
Ora, come Geremia,
rifletterò sulle cose
che sorgono e si eclissano
Ecco – dice il profeta –
siamo eredi del crollo e dell’allucinazione
il kibbitzer è interiormente ferito
E’ la compassione che devasta, ci spiega
E cosa significa poetare in questo tempo d’oscuro?
Risponde: significa contemplare nubi
che il sole squarcia
e che sono appese,
sollevate sulla tua testa.
L’esistere – dice Geremia –
è un sole pallido
attorniato dalla foschia
di ombrose essenze
Ma domando: si può misticamente affogare
nelle acque limacciose dell’Acheronte?
Che risponde il profeta?
Risponde che uno tergiversa e procrastina
per imbonire lo spirito prevaricatore;
ecco – dice – mi sono piegato su me stesso
sto profetando il vuoto
Numi di cioccolata
questa iridescenza piovosa,
su Baggy Point,
è la voce afflitta delle creature
in questo non luogo,
in questa opalescenza,
si sono insediati
i Signori del tempo.
In questo luogo – non – luogo
c’è un vacillar di sabbie:
il fiume Oceano dona
e non esprime giudizi
un secchio di plastica squarciato
vale quanto uno scrigno ricolmo d’oro.
Quando l’Oceano dona
la voce dell’eroe eponimo
si quieta
si affievolisce,
si attenua,
si smorza,
e tutto succede:
anche Pietro l’Eremita
fugge dalla Crociata.
Eh si! Contro il fulgore accecante
non c’è nulla da fare,
anche Max, scodinzolante
si dissolve nella luce,
poiché gli Arconti sussistono tenui
nel subdolo bagliore,
o si dissolvono tra le pareti alte del cielo
oppure occhieggiano, tetri,
da morte finestre
Il bagliore che acceca
è luce estatica,
ma a noi, intrappolati
nella demenza del tempo e della carne,
nulla è concesso.
Un pettirosso si posa
sul becco d’arenaria dell’airone,
sul ciglio erboso della strada,
un ratto morto è raccolto in preghiera
Ecco: ho radici devastate e inconsistenti
quante volte ho poetato
sulla riva del mare
sguazzando nel nulla
dei miei insulsi pensieri
sono un essere che si occulta
nella gestualità grandguignolesca
degli uomini
strisciando guardingo,
tra pareti muscose,
come “un ladro nella notte”
Devo dire: il cuore non regge il vento,
il vento si insinua nei recessi dell’anima
fa barcollare gli ordinamenti della ragione,
a vacillare il baldacchino barocco
ed arzigogolato della mente
Un’esplosione di luce:
Appledore è la Gerusalemme dei santi
L’Oceano rigurgita cose
come l’inconscio trabocca d’immagini:
le onde sono le parole del mare
Da una nuvolaglia grigiastra
uno scomposto diffondersi di luce
il mare si ritira: Max si dissolve tra le dune sabbiose
Verso il crinale del monte
un ondeggiare di una schiumosa lucentezza
L’indicibile spazio necessita
punteggiato da pecore
Omero, immoto, osserva.
Lo spazio è la serenità della luce dissolvente
Una barca si disintegra sulla spiaggia melmosa
Crow Point si estingue
nella foschia
le dune che lo sovrastano
si perdono
in una nebbia dissuadente
Ora, Max si concretizza nel bagliore:
occorre un punto ove il terreno non si sfaldi
La foschia ha avvolto l’Essere,
lo avviluppa e lo contiene.
Che cosa gloriosa è incedere
in questa luminosità diafana:
ho assorbito con gli occhi
la luce del sole e penso:
i Signori del Tempo
si sono aggrovigliati nel fulgore.
Di cosa ciarlano
queste figure grottesche
che si espongono
dai consumati capitelli?
Cosa dicono
mentre si affacciano
dagli archi trifolati,
come da insostanziali balconi?
Chiedono: perché le cose
sono esposte alla vostra
furia dissacrante?
Chiedono: cos’è quest’idea
del centro disfacente
dal quale le cose tutte dipartono?
E perché le cose
sono strumenti docili
di una inusitata,
soverchiante potenza?
Ecco – mormorano – da questa
inquietudine fondamentale
nasce il rigurgito
che vi pone esterni
alla visione dei greci
E perché violate le cose?
Perché le trattenete nel terrore?
E chiedono: il fondo metafisico
è la luce dell’Essere?
E’ da quel fondo che tutto deriva?
E siamo anche noi,
pietra usurata,
parte dell’ultima luce
delle cose?
Come è melmoso l’Usk
e come è tetra questa città.
Anche sottrarsi
alle zanne di un Dio
che pensa come un uomo
non è piccola cosa.
Non si fuoriesce facilmente dall’orrore.
E’ sempre così: quando Kafka
legge la colonia penale
ad ascoltatori sbadiglianti
una donna sviene dalla noia:
la compassione logora chi non l’ha.
Una serenità scandita
dalle gradazioni del verde
dalle sfumature di rame delle colline
dai grigi del pallido mare
L’agrifoglio germoglia,
giaggioli, orchidee, primule
e la genzianella promettono fiori.
Ma tutto ritorna.
Il falco ondeggia.
Un’entità ha esplorato
il manto muscoso delle dune desertiche
la sabbia è mobile: il vento gioca.
Ma tutto ritorna:
Max infrange la luminosità
con la sua corsa sfrenata
Luce spiovente dal cielo
come una discesa salvifica
verso il cuore dell’Ade.
Gabbiani stridono
allodole saettano
come piccoli Charlie Chaplin
i “sanderlings” scorrazzano rapidissimi
sulla riva del mare
Ma in questa sovrumana solarità
quali sono i punti di riferimento?
Ecco. Dice: l’infinità è un cespuglio di timo.
Nella serenità bucolica del giardino leopardiano
nella selva, apparentemente serena,
di memoria schopenaueriana
è apparso Xile Totec.
Ha un volto d’angelo e contempla l’Essere
con la bocca spalancata dalla meraviglia
è un bambino di inaudita bellezza
avviluppato nella pelle,
ancora grondante di sangue,
di un uomo sacrificato
la cute è legata dietro la schiena
con gradevoli nastri
due guanti di pelle umana
gli pendono dai polsi.
Dice il piccolo dio sorridendo beato:
tutto torna e l’infinità è un cespuglio di timo.
Davanti all’orrore nel cuore della serenità
mi sono inchinato.
Una gazza mi guarda.
Max abbaia.
Un coniglio fugge
nel deserto della ginestra leopardiana.
Ci sono cose
che sembrano sfuggire
a tutti, come
il segretario Artemis,
con le sue olimpiche nudità,
che nel Castello di Kafka
squittisce come una fanciulla
alla quale stanno facendo il solletico
oppure
l’uomo nudo che corre via,
secondo Marco,
quando arrestano il Cristo Gesù..
Ci sono cose incomprensibili
nella storia del mondo.
E sempre nel cuore della serenità
c’è l’orrore:
sulla tavola bandita del devoto cristiano
c’è intronato l’agnello sgozzato.
Attraversando la follia
del tortuoso agire
uno si dimena
come una marionetta
per poi precipitare
in un dimesso
e insignificante poetare:
e sempre tutte le porte si chiudono
Dopo che l’anima,
come dice Achille ad Odisseo,
mi è passata attraverso la chiostra dei denti
ho incontrato il Mitclan,
il Signore della Morte
Otto montagne con micidiali dirupi
ho scalato.
Per otto selvaggi deserti
mi sono inoltrato.
I nove fiumi dell’inferno
ho confusamente visto
nell’umore opaco
di una diffusa caligine.
Le nove terre dei morti
ho oltrepassato
attraverso le Porte Solstiziali
e le Pietre Simplegadi
sono transitato
Alla fine del viaggio
quando ho visto
un branco di cani
sull’altra sponda
del fiume infernale
ho capito.
Max mi ha aiutato a guadare.
Dopo il Vento di Ossidiana
l’energia vitale si è dissipata
si è esaurita l’infinitesimale coscienza
Appena raggiunta l’altra riva
sono divenuto trasparente
alle cose e a me stesso
e sono sprofondato nel nulla
con un senso di possente felicità.
La marea si è ritratta:
una ferita terribile
è questo stato di deiezione
ancora prima di nascere è presente
anche gli dei sono avvolti da quest’empietà
che nulla risparmia
Se sei toccato
dalla luce selvaggia
il sogno interiore diviene
una gotica costruzione
bilanciata e armoniosa
ma le parole ritmate
solo apparentemente
trasformano la nostra
connaturata simmetria.
Sarà: ma è una nottata tempestosa
e le anime dei morti stridono.
O qualcosa stride.
E devo restare esposto alla luce della notte
all’ondeggiamento delle ombre
anche Delo, ormai,
è vacante
e Febo Apollo,
come il garagista di Braunton,
è un misto di luce e tenebra.
In un “loco amaeno”
Febo accetta e assimila la notte
e mentre il garagista la sostiene,
epigoni, senza interiorità alcuna,
entrano e fuoriescono da archi trilobati.
Ma gli epigoni tenebrosi cosa rappresentano?
Chi sono?
Da dove vengono questi seguaci della caligine storica?
E la loro natura è imperitura?
Devo restare avulso dalle cose del mondo
e con un manto lacero, rabberciato
devo coprire le mie erose sembianze
La pienezza
è quest’occaso morente
ove l’Essere vacilla
nella senilità obsolescente
dell’infestata coscienza.
Tutto è meraviglia?
Sarà: ma per l’infinita misericordia,
è meglio, dubitare e rivolgersi
verso la luce obliqua.
Ecco: riflettendo
proiettiamo un fascio di luce sulle cose:
basta ricordare
che sul terreno primordiale
il dio che danza,
sfrenato ed intrepido,
è il multiforme Proteo.
Il sentiero del mare
é questa luce
è questo folgorante scintillio:
eccoti qui con le ferite aperte
della negatività Kirkegaardiana:
se hai gli occhi aperti
una grande calamità è il vivere.
Eccoti qui: oltre Ogigia,
e Scheria: attraverso
improbabili Penelopi
Eccoti incedere,
traballando,
tra le ombre adiche
del sole meridiano
che geometricamente
le assimila e le interiorizza.
Chi disse: sono amico di Platone,
sono amico di Aristotele
ma cerco la verità?
Mi rispondo:
é giusto
che io canti
il silenzio delle cose
come Odisseo
la giovane palma di Delo.
Com’era esausto il mondo
ed i grandi tigli desolati
e la testa calva del marmoreo Iddio
e la grande terra sconsolata.
Ed il silenzio tuo
sulla meditazione del vuoto:
questa sorte te l’hanno cucita
addosso gli Dei o le larve stridenti
che si abbeverano dal botro di sangue
E se qualcuno giungesse
dalle terre iperfisiche di Elisio
o dalla provincia demitiana di Avellino
e vedesse questo sguaiato cialtrone
agitarsi per la sua sostanza immortale
ne rimarrebbe allibito.
Ed è sempre una continua ecatombe.
E tutto nel nome di Dei vuoti
e sanguinolenti.
Ecco, dice, l’Ade è un ventre aperto.
Dice: l’Ade – o il mondo – è un ventre aperto,
ed i cani che scodinzolano e ululano,
solo loro, intuiscono il divino.
Ecco, dice, notizia ci giunge,
tra le farneticanti esternazioni
del secolo: Agamennone
galleggia massacrato
in una piscina di sangue.
Ora, con il remo sotto al braccio
e la Malboro accesa
attraversa il nulla incommensurabile
e transita davanti
ad Aglaofene, Ligia e Leocosia,
mentre cantano la terra fugace.
Ed é sempre una continua ecatombe:
un eterno travaso di sangue innocente.
Alla fine, dopo il macello di bestie
si placa Poseidone: un concetto astruso,
bizzarro.
Ecco, dice, ci mancava
il demenziale Tiresia
per invitare a nuovi stermini:
i peggiori sono sempre
i profeti ermafroditi
E gli chiedo: dove vai con il remo sotto al braccio?
Mi risponde: verso
il nulla incommensurabile:
Scheria o Appledore
sostanzialmente non cambia.
E gli chiedo: vai verso
l’Iraq liberato – se così si può dire –
o verso la Trespozia o l’Epiro lontano?
Mi risponde: ricorda
gli Dei sono obnubilati,
ottenebrati dalla foschia
del vuoto incedente
e quando non germoglia la giustizia
la polis non è più lussureggiante.
E spiega: anche la larva di Patroclo,
stridendo, fuggiva da Achille.
E che significa questo, che c’entra? Gli chiedo.
Significa, risponde, che
l’Ade – o se preferisci il mondo –
è un ventre aperto,
una bocca sbadigliante.
Rispondo: ieri ho salvato
una minuscola lumaca:
ecco la mia ecatombe sanguinante
agli irascibili Dei.
21
Tiresia,
che fu uomo e donna,
contempla,
nel perdurare del secolo,
un telamone senza gamba
che si inarca per sostenere
il peso del mondo.
Il profeta ermafrodito
ha il volto segnato
da una ruga che percorre
la fronte tormentata
come quella dell’Alessandro di Lisippo.
Mentre riflette sui grandi “Kouros”
radicati nella terra nera
predica il suo Dharma
in una sala fumosa.
E pensa alle leggiadre fattezze
della Dea filiforme,
fluttuante sull’immensa solidità,
che gli ha strappato dagli occhi
la luce del sole.
Dei fottuti, pensa, Dei malvagi essenzialmente luridi e vuoti.
E pensa alla Dea crudele,
nell’etere armoniosamente bilanciata,
che profumava di tiglio
nell’aria malsana del mondo.
Ma Era lo accecò e svanì retrocedendo
in un vortice di luce,
e in quell’istante si dissolsero
anche le soavi Koirè
elevate ai margini del suo
agonizzante sentire.
Passons: ora procede con Manto,
sua figlia, verso la foschia cupa del monte
tra un alternarsi di crinali e dirupi
e giunge al grande annebbiamento della prima rampa
che esenta le cose dal nostro astruso
e calcolante vedere.
Dei fottuti, pensa, vacui ed immondi.
Entità assetate di sangue e di strazio.
E dice: sono come sicomori ondeggianti nel vento
i “Kouros” radicati nella nera terra.
Poi, si strofina gli occhi ciechi
e mormora: strano, tutto ride
del mio mondo, ma l’insolenza del reale,
che mi ferisce e mi acceca,
mai mi stermina,
o mi piega.
E Manto sorride.
Ah le fondamenta del
tempo
quando la luce meridiana
gioca con le onde del mare
e la sostanza infinita
s’adombra e si cela
tra gabbiani angosciati
in bilico, nell’immensa calura,
su guglie di pietra
Certamente,
in quell’angolo tralucente
è celata la sostanza;
e si nasconde tra pietre
religiosamente posate
a macchia di leopardo
nella geometria solare,
mentre il famelico piccione
s’avventa verso le briciole di pane
offerte dalla mia mano.
Cos’è la sostanza?
Un gioco d’ombre nella luce.
Ma anche il piccione è infinita sostanza?
Chissà.
Eppure dicono che il “Grund” sia il terreno
luminoso che lascia le cose accadere,
le lascia compiere, e le fa essere gratuitamente,
senza ragione
E il mondo cos’è?
Il mondo è ciò che affoga nelle immagini
E le immagini?
Simulacri impazziti che uccidono.
Ecco mi sono adagiato nell’indeterminatezza
di un cantuccio kitsch, e tra piccioni di coccio
e bambole di plastica, mi sono insinuato
tra le cosce lucenti di Peggy Sue,
mentre Max mi guarda.
23
La grandezza è questo silenzio
che nulla chiede:
ora piove.
Mi so sollevato nel giorno
ho i gomiti della giacca lisi,
sfilacciati, il tempo mi ha convulso,
mi ha illuminato e limato,
mi ha smussato, come il mare una pietra.
Ecco: sono sospeso
con tutto ciò che vive e non vive
su questa palla che rotea
senza alcuna intenzione.
Bisogna preservarsi nell’estasi del distacco:
la fosforescenza patinata del secolo
é un magma vorticoso,
apparentemente innocuo,
nel quale le miriadi di cose precipitano.
E l’Essere è Dio?
Ecco la suprema bestemmia
dell’apparato divulgativo
che mappa, codifica il bene e il male
come fossero strade di una città putrescente
e ci gioca come il gatto gioca con i topi.
Dammi un segno per non farmi sostare nel vuoto
Nessuno sa da dove giungo,
ma forse sono originato dalla grande calura
per stabilirmi in una dimensione inferiore,
barocca e floreale.
Poetare è un’amara avventura
è un librarsi nel mondo
senza spettatore alcuno.
Ma chi ha bisogno
– se non gli idioti –
di platee applaudenti?
Io sono qui,
immerso nell’immenso disamore
della disarmonia
e sussisto tra muse malsane
arroccato nel vuoto del corpo.
Del corpo posseduto?
In eternità posseduto?
Ammicco e sorrido:
ma non fatemi ridere: l’Eterno
– o ciò che chiamiamo così –
non si possiede, ne bivacca
nella folle insensatezza
che domina il mondo.
25Quando vi
vidi
riapparire dall’abbandono
mi si devastò il cuore
ma io, cose sante,
non potevo raggiungervi
Ero come un giunco impotente
flesso nel vento, e non conoscevo
pace in queste lande desolate dello spirito.
Noi evaporiamo: siamo idoli evanescenti sulla terra.
La terra respira
L’Oceano sale
La foschia è discesa e ha ovattato le dune
l’Oceano ha risucchiato le parole
presso Mort Point
la marea nera ha inghiottito
astrusi concetti assorbendoli
nel silenzio di scogli verdastri
L’Oceano ha digerito i residui
dei nostri viaggi interiori, la minutaglia
dei dialoghi alterni, la miseria dei conflitti
e delle riconciliazioni: li ha annientati
tra gli stridii di riottosi gabbiani
Sono qui assorbito dalla diafanità, ma che ci faccio in questa luce?
Il tempo si dipana
ed è situato, qui,
nel centro della mia fronte
come un chiodo conficcato
in una trave di acero
Mi sono avviato verso la grande baia battuta dal vento
Pallidi raggi trapassano
nubi opalescenti,
questo luogo ha i tenui colori
della malinconia sebaldiana:
Max appare e dispare tra le dune
Omero rincorre le onde
Qui, nell’ “hic et nunc” dell’estuario
mi sono confrontato con misteriosi relitti
mi sono confrontato con l’eterne connessioni
che affollano la mente e che tessono incubi, sogni,
fantasmagorie, visioni e rimasugli di contaminati pensieri.
Qui nell’ “hic et nunc” dell’estuario
deità beffarde ed ascose sono eternamente in agguato.
Mi sono levato, appoggiandomi sui gomiti laceri,
contro il fragore artificioso della modernità,
tra la natura luminosa e ferita,
mi sono sollevato dalla mia angst,
mentre stride un solitario gabbiano.
La foschia delle dune, come un nulla
taumaturgico e catartico, è discesa
sulla casa fatiscente di Peggy Sue
ove il padre alcolizzato oscilla e blatera
come una marionetta scossa dal vento del Caso.
La marea accarezza le rocce taglienti
mentre Peggy Sue accarezza Max e sorride.
La bellezza è verità?
Uno scrive poesie sull’Essere,
ascolta Bach e Beethoven,
mentre gli altri muoiono di fame
e gli animali sono squartati in infernali macelli.
Ma delle nostre disperate sensibilità, giustamente,
non frega niente a nessuno.
Dicono che l’universo si spegne
Dicono che le miriadi di stelle si estinguono
Dicono che il Tutto precipita nella notte nera.
Ecco: la terra respira: sto tornando dalla grande baia battuta dal vento.
Ora piove.