Sezione: Poesie
La costa è deviata per l’eccessiva presenza di luce
si sfalda in un assembramento di nebbia
che verso il porto concede un frammento di statua
L’angelo è sospeso nell’immensa banalità
del suo abitino merlato
L’essere luminoso è una bambola
imprigionata tra spumeggianti merletti
Il dormiente ha piegato la testa e sorride
Io questo direi: le grandi tende
di velluto rinchiudono un mondo
lo preservano dall’incedente malore
È difficile con un linguaggio irrancidito,
devastato dalla logica calcolante,
definire la percezione essenziale
espressa dalla scena silenziosa
il tumulto a volte ci piega e ci
fa barcamenare in una luminosità irreale
l’angelo transessuale orbita sulla testa
del dormiente, ondeggia vago
oscilla come una immacolata altalena
l’Oltre è un aprirsi di porte chiodate
su palcoscenici nebbiosi e fluttuanti,
su magioni evanescenti edificate
dalla mente ferita
l’Oltre è un declinar della coscienza
in una materia oscura
che s’apre come una finestra su un porto
L’Oltre è una striscia d’azzurro offuscata
da una grigia foschia
e non so proprio come dire:
tutto si fonda nell’originale cognizione
ove il mondo era, agli albori, custodito
ora, la violenza della ragione interferisce
e contamina
e che posso fare io catapultato in questa basilare
incomprensione?
Almeno in questa terra odo lo stridere dei gabbiani
L’angelo oscilla nella luce meridiana
con il suo vestitino da sposa
e si libra sulla grande inconsapevolezza
La porta dell’anima é l’apertura
che dischiude il bene ed il male
Quando eravamo bambini
il male ci morse la nuca
come un bavoso serpente
ed ora che veleggiamo verso la tomba
ci divora il cuore
Il tempo è questo:
dalla finestra di ossidiana
un mare di tinte cerulee si dona;
la grande statua di Febo
è trafitta dalla luce meridiana
mentre le ombre si dileguano
Le memorie si agitano come ossessi
nella gabbia della mente:
l’Essere è restituito alla precarietà
Ecco: la luce dell’Essere è l’abbandono
all’inconsapevolezza
quando, alla fine del viaggio,
le cose assumono
il loro significato recondito
e anche una vita violenta
si trasforma in qualcosa di armonioso
e il tumulto spazia nella soavità
Dalla nera apertura l’io fondamentale guata
poiché l’io non contempla il mondo ma lo guata
Ma quando la luce dell’essere
fascia le cose
la tracotanza svanisce
e la porta dell’anima, trasfusa
da tinte grigiastre, appare riflessa
nelle acque traslucide
Ma il fanciullo è svanito
Non so come spiegarlo: il tempo è questo
dalla finestra di ossidiana si intravede
la prua di Odisseo dissolversi in una struggente foschia
Ma quando la verità emerge dal suo appannato fulgore
si manifesta il mondo transeunte, fugace
Parlar di tenerezza è fuorviante
ma la luce dell’Essere
ci culla dal profondo della dimenticanza
3
Quando la volta celeste crollò
rimasi coperto di cenere
ma furono loro a ridurci
nel bugigattolo delle menzogne
furono loro che compressero
in un imbuto il cielo intero
E’ così: ogni specie egemone
e derelitta inventa i suoi “Immutabili”
Procediamo.
Ora la memoria mi porta
verso un grande portale aperto sul mare
tra il vagante fluttuare di ombre
Fu lì che intravidi
per la prima volta
le cose nella luce obliqua
e capii che l’Essere circolare
è un gioco della mente
Eppure, la luce é un dono dell’Essere,
è la luce che plasma di assenza e silenzio le cose
e le pone in una luminosità
sfociante in un’assonanza nebbiosa
Ora, ho capito.
La terra lontana che sorvolai
con le ali spiegate era qui:
nel centro della testa
e mi sono inchinato dolente e stupito
davanti al peculiare frammentarsi
dell’infinito mosaico
e tutto, tutto, era un fuoriuscire di luce
inerente alle cose
e il mondo emanava un sentimento
che definire trascendenza,
nel senso demiurgico,
è offensivo per la mente
Poi altro vidi, obliquamente,
che non so esattamente descrivere
ed era come un errabondo apparire di forme
che forme non erano
Quando varcai la soglia dell’Oltre
udii il balbettio dei telamoni gobbi
che sostengono le colonne del grande portale
E mi accolse un’immensità luminosa
che ansimava come luce sprigionata sul mare.
Più tardi giunse il patire della notte.
Era come se il tempo fosse soggiogato
e quiescente quando mi colse la meraviglia
della costa brumosa
Senza la coscienza che la percepisce
la terra resta risplendente
e restano risplendenti le cose
La coscienza nella dinamica dei mondi
é un inganno; e io, nello splendore delle cose,
mi sono beato perché non sopporto divinità macilente
che pesano sulle mie miserevoli spalle
come macigni di granito
Ma cos’è che avendo obliato ci crocifigge al palese?
Cos’è che ci catapulta verso lo spaesamento e il disagio?
Un tempo una deità bavosa regnò su queste terre offuscate;
un vecchio demiurgo arzigogolato e vano che rese arduo
l’incedere dell’anima
ma ora tutto è lieve e si scioglie nella fluidità
della luce, quando il limite è superato
e si abita la dismisura tutto diviene inconsistente
Quando veleggi verso luoghi dissonanti
ti ritrai dal giudizio avventato sulle cose
e religiosamente ti astieni dal gioco spericolato
che ti ha reso tiranno sul mondo
Quando veleggi verso l’ultima terra
mentre l’incompiutezza ti corrode
il fiume Oceano si dissolve in una grande apertura
permanere tra quelle foschie è temerario e rischioso
ma senza apertura luminosa non esiste vita
Quando la vidi dispiegarsi davanti alle pupille degli occhi
era come un vertiginoso balenare di luci smorzate,
un vacillar di vapori in un rumoreggiare di acque
era come se il mio essere fosse espropriato,
sradicato da precarie certezze
Questa terra l’ho vissuta come struggente lontananza
come profonda alterità ed è stato un logorante attendere
ma ora lo vedo fasciata dal manto brumoso
e non ho dubbi: Tiresia m’ingannò col vaticinio dell’Ade
lo capii quando il consunto nocchiero si volse
ed urlò con gli occhi stravolti:
“Odisseo da qui non si torna.”
5
Qualcosa ruggiva verso
i Buddha malfermi
e gli altari fatiscenti
dei Boddhisatva tarlati
e sembrava giungesse
da un mondo lontano
e che non travalicasse
le cime dei monti
e pareva un’entità edificata su nebbia
su sostanza leggera,
un’essenza sfumata di bruma
perseverante nel nulla
E questa foschia generava
un rugoso echeggiare di voci
un bisbiglio struggente
contenuto in uno stormire di luci
che prosperava nel vuoto
E davanti a questa forma
la solidità del mondo
era un dispiegarsi volgare
un elevarsi barbarico
contro il fulgore dell’anima
L’altro giorno cercavo la luce
ma il cielo era livido
di un gelo che intirizziva i testicoli
delle scimmie di bronzo
Ed era un tempo che dilatava
il grigiore nevoso
e in quel cupo sentire
si dileguava la certezza del mondo
Per me vivere in quest’epoca
è stato come esistere nella disarmonia
perché questa è il secolo della prevaricazione
del vorticoso progresso, dell’eterno superarsi,
del rincorrere il vento
Ma quando giunsero nelle pupille
le case di mattoni
dalla massiccia sostanza
le cose del mondo
si stagliarono contro il cielo
e tutto si risolse nella grande apertura
della luce primiera
E’ inutile: il massacro del mondo
è sovrabbondante per questo insulso poetare:
ma ora, il nevischio scende e disegna arabeschi nel vuoto
mentre la casa è inghiottita da una impercettibile luce
Tutto fugge, tutto vibra
Lundy svanisce dietro una cupa barriera di nubi
e sembra l’isola dei dannati
Baggy Point si concretizza nel riverbero luminoso
Max aspira la fragranza di un coniglio fuggente
Sospeso in questa fluidità non ho nulla da obiettare
ma le parole giungono scarse
Quanto tempo hai vagato,
anima mia, tra questi abbagli
ora è tempo di espellere
l’io profondo dal miasma mefitico
è tempo di riacquisire
lo spazio adamitico
che contiene la regione del cuore
ma non preoccupiamoci:
tra cinque miliardi di anni
il sistema solare sarà incenerito
Il mio ego si svuota:
nella notte
la mezzaluna rende
argenteo l’orlo delle cose
Com’eri disattenta
quando le nubi ti sfioravano
e le fronde frusciavano
per l’incombente tempesta
Attraverso lo sconvolgente cercare
t’inseguiva un vecchio occhialuto
sulle gambe tremanti
e oscillava il lume che avrebbe
dovuto dissipare l’oscurità
Un ponte scandiva il ritmar della tormenta
L’essere mortale, caduco
era una nozione che sconvolgeva il cranio?
Un grande silenzio era sceso
come se il giorno del Signore
approdando da un’altura,
fosse riapparso sulla cresta di un monte
L’ego svuotato non rincorre essenze arcane
L’ego ricolmo si dibatte sulle tracce colorate del sentiero giallo
Agitando il bianco bastone il vecchio ti insegue
Il mio essere sprofonda tra il germogliare dei fiori
Se sei vuoto accedi alle stanze del non – tempo
Ma Atalanta ride, fugge e ride.
Atalanta fugens ride.
Atalanta ridens
8
La poesia è una folgorazione
che spalanca le porte del mondo;
ma è cosa da poco, nella dinamica
delle cose, anche se da senso a una vita
Poetare giustifica il vivere
– e poche cose lo fanno –
ma le poesie sono come mandale
disegnate su sabbia, con sabbia
sono come geroglifici scolpiti nel vento.
La precarietà ha una sua logica: la stabilità non riguarda lo spirito.
Nel tempo che si avvicina alla fine,
questo posso dire: nel momento dello scrivere
mi coglie un’allegra baldanza che illumina il mondo,
lo rende traslucido nella sua insignificanza,
me lo pone essenzialmente vuoto di cose retrostanti,
e me lo dona sostanzialmente se stesso,
privo di ambiguità come l’amore di un cane.
Non poter poetare è in un senso morire.
Ma spesso il silenzio delle parole ricarica l’anima.
Il peccato è aspettare eventi
in una condizione che non concede eventi;
il peccato è formulare baldanzose speranze
quando la vita, nella sua luminosa vacuità,
nulla esige e poco concede.
E bisogna che, ritornando nel mio spazio biblico,
ritrovi le accorate parole; e che cerchi
nel mondo silenzioso della pioggia
il senso dello spazio perduto,
che non è una dilatazione spirituale
ma un’apertura del cuore
ove ciò che esiste non conosce
nefandezza o grandezza
E ci vuole coraggio a venire giù per il declino
del mondo e affondare nella banale foschia
del piccolo porto fasciato da nebbia
Quando cammino col mio cane penso
che stiamo fottendo la terra
e viviamo in una cupa tristezza
che è simile a un vortice nebuloso
spalancato verso il niente.
E ovunque si vive si è fuori.
Questa è la mediocre realtà
che ti fa sperimentare la pesantezza degli esseri
che scavano nell’anima
e ti circondano con il calore belluino
nell’incomprensione incombente.
Ed è meglio ridere.
Meglio è liberarsi ridendo dell’interiore nullità
Il riso libera dalla spocchia dell’ego
E, forse, è anche meglio mascherarsi
e celare la luce interiore usando
la mistificazione come un manto
La verità?
La adequatio rei ad intellectus?
Roba per boy scout.
Addentrarsi qui è problematico
l’area è presidiata da creature dissennate
che hanno la sostanzialità della nebbia
Qui, il tempo è espressione del miraggio
è una fantasmagoria bislacca
creata da un artigiano dalle unghie listate di fango
che opera, tra clessidre che scandiscono le ore,
con perfetta pacatezza
Entrare o fuoriuscire da qui comporta il rischio dell’annientamento.
Qui, le parole diventano suoni somiglianti a grugniti,
simili a emissioni gutturali di non costrutti pensieri
equiparabili all’abbaiare di un cane
Il terreno è tenue.
Ma esiste una soluzione?
Esiste una soluzione nel riposo nell’ abbacinato meriggio
quando la potenza solare filtra tra tende socchiuse
e nel corpo, liquefatto dalla calura, la mente vacilla.
Solo allora nell’ondeggiamento delle sensazioni
è possibile intuire, tra i cespugli di fiaba, la balzana realtà
di questo luogo che un luogo non è
Siamo seri: quello che chiamano Oltre
non è altro che un famelico burattino
agitato da mani di vento su un tenue terreno.
Tu dirai: non capisco.
Ti rispondo: che importanza ha comprendere
quando l’intuire autentico ti giunge
attraverso le tue viscere malandate,
attraverso le tue budella imputridite?
Il comprendere con lo stomaco fa vacillare la mente
e demolisce i pensieri malnati arroccati – come armati
in cupe cittadelle – in fedi demenziali
Gli accecati dai dogmi seguono i loro nefasti impulsi;
ma è bello vedere una fede che implodendo crolla
e lascia tra calcinacci e macerie il sapore del vuoto
sul tenue terreno
Non bisogna forzare il senso delle cose
quando il tempo s’inarca meglio è placare
l’impulso forsennato che cresce
dal tumulo dell’ego
La felicità?
Non cosa sia: ma ricordo
che Nietzsche – da qualche parte – scrisse
che è l’ideale dei porci.
Due cose posso dire:
il rispetto che provo per le cose
– animate o inanimate –
origina dal mio carambolare nel bosco
ove dai germogli scaturiscono fiori
E che la magia della penna su carta
mi riscatta: scrivere, in un senso,
è lasciar le cose accadere.
Importante è strappare uno straccio di essere
dalla massa fagocitante dei pensieri
che soffocano l’intuizione
Ma le cose che si manifestano
nella luce ellenica, non sono quelle
che percepiamo sub specie polverosa:
anche le nuvole si contaminano col nostro sentire
Quando giungo presso il faro,
il mare ha il colore della luce smorzata
e l’orizzonte si fonde in una delicata foschia
Eppure l’universo ci contiene:
e non è vero che le cose siano
cucite con un filo d’argento;
esse svolazzano libere
come energia luminosa
che ci è data da una grazia invisibile,
che si concede e si ritrae.
Ora, che tutto è immerso nel silenzio diafano
sto ricostruendo la vita con austere parole:
il sole è apparso dietro la collina,
la susina damaschina è in fiore
Anche quest’albero è dedicato ai tuoi occhi.
Nietzsche da qualche parte
scrive che quando tutti pensano
allo stesso modo, chi pensa
spontaneamente finisce in manicomio
così, quando si manifesta con i capelli cremisi
scossi dal vento e la tunica rigonfia di vuoto,
non riesce a capire come una pacata possessione,
che scaturisce dalla foglie di alloro masticate,
si raffermi, si concretizzi, nella mente ondeggiante,
con immagini di luce.
I grandi sigilli si schiantano? Si chiede.
“Un jeu d’esprit” gli rispondono;
Ma lo spirito è veramente richiuso nel dettaglio?
E che c’entrano le foglie di alloro?
E perché il frontone con le cariatidi dorate
collassa per le instabili fondamenta?
E perché tra le macerie si leva
un cantico che, come una prece,
canta l’invisibilità come il dono supremo
eretto su superfici malferme?
Quando nell’ora del meriggio
le ombre dei simulacri
si proiettano è difficile collocarsi nel mondo
è difficile acquattarsi nella furente follia
delle voci che percorrono la mente
e che tracimano, debordano tra insulsi pensieri
Meglio è allora immergersi
nel liquido amniotico dell’oscuro
e cercare asilo in un luogo avulso,
esterno al tempo, in uno spazio dell’anima
Ma quando vidi le cose
nella luce peculiare del mondo;
quando guardai un chiodo arrugginito
e una catena corrosa dalla salsedine:
sussultai per il frastornante sgomento
E nell’affrontare pacatamente
la nudità delle cose, fu come
riversare reconditi significati
nel vacuo della mente.
Le cose nella loro estrema indigenza
emergevano dall’opacità della luce
ed era come se si accampassero nel vuoto;
come se vibrassero, se sostassero,
senza pretesa alcuna, nella loro
fondamentale semplicità
E guardandomi capii che il mio divenire
era come lo scuotersi di una lignea marionetta
davanti a una sacra immobilità
Ma dove conduca questo struggente sentire, io non so
Il problema è continuare a blaterare
quando le parole diventano astruse e legnose
e anche il silenzio perde il significato
Quando ti elevi sul clivo
l’orizzonte aperto si espande
definendo il senso della sehsucht
La nostalgia non richiede oggetto
è una sfumatura di luce
che si specchia nel mare;
è il riverbero delle acque
che si riflette nella cavità del cielo.
Caratteristica della sehnsucht
è la cangiante mutevolezza
che, come un gioco di nuvole,
cresce da un riverbero sfocato
In quello spazio
il sole non è furente
non scolorisce le cose;
e mentre le nubi lo lambiscono.
si effonde e si occulta
Ma una cosa va detta:
la luce delle cose emerge dal cuore
solo quando la lucentezza si effonde
nell’estensione dello spazio
Il segreto è il distacco
dal proscenio pretenzioso del mondo
con le sue figure grigiastre,
stagliate su uno sfondo luminoso;
ma nulla è pretenzioso se si intuisce
che il Tutto nell’infinito si sfalda
Un’altra cosa va compresa:
la consapevolezza della luce
è dettata dalla conoscenza
della condizione del mondo:
il mondo visibile è immerso
in un sentimento di apprensione che è
simile alla cima ovattata di un monte
Ma noi, che tutto osserviamo
da una finestra fatiscente
elevata su una impalcatura sciatta,
sappiamo che il nostro stupore
è falsato dalla violenza alle cose.
E, in fondo, cosa è la sehnsucht?
Anche in una chiesa spoglia
delle volte la senti,
ma per dar spazio a questo feeling spurio
la mente deve essere ingombra
Bisogna capire il ritmo delle tue cose
prima di inchinarsi davanti
alla peculiare virtù, che sempre fruga
tra le cose derelitte,
e le raccoglie preservandole
E per comprenderti
è sostanzialmente necessario
osservare con gli occhi
dell’anima, obnubilati dalla calura,
i tuoi gatti che adorano il vento
e il silenzio del tuo cane benedetto
che raccoglie, con i tristissimi occhi,
gli scampoli della luce morente.
Ma io che molto assorbo nella mente ferita
capisco che nell’arsura bruciante
si adempie il tuo tempo avvoltolato
da precarietà e incompiutezza
Ma questo nello spazio – tempo,
mentre il calore essicca e svuota di vita
le cose, è il feeling fondamentale del secolo
Non piangiamoci addosso:
nel caldo eccedente che tutto mummifica
l’immobilità delle tue bestie è come
un eterno vacillare, un vibrare di Essere,
determinato da una bislenca causalità
cagionata dal caso.
E se tutto – come affermano –
è cucito con fili d’argento
il rumoroso accadere è un illusorio
tuonar di tempesta ove germogliano
significati infiniti.
Su quell’arazzo illusorio, che è il cantico
della traviata speranza, ci puoi tessere
tutto quello che vuoi, anche la storia
del dominatore intergalattico
di Ron Hubbard e Tom Cruise –
o l’odissea di Joseph Kony e della
Lord’s Resistance Army
Ma questo è il mondo: e tu, in fondo,
ti ergi con la tua misericordia
come una configurazione minuta
contro il male banale
ed è logico che il tempo virulento,
ti percuota, come Charun,
con il suo ossuto martello
Ma alla fallace potenza resisti
e, forse, questo opaco poetare
vagamente ti aiuta a sussistere
Io spero che l’Angelo della Luce Infinita
ti sfiori le labbra, ti baci sugli occhi
e ti accarezzi con le dita diafane i capelli,
quando raccogli i residui
delle cose massacrate dal mondo.
Che strano: quando
la squarcio si apre
sgorga il balzano poetare
come una tumultuosa sorgente
Sotto l’arrugginita armatura,
straziata dal tempo, cola
il sangue e scivola, mentre
accarezzo il destriero,
lungo i distrutti cosciali
E non so come placare
questo flusso sanguigno
che sin dalla nascita
mi indebolisce l’anima.
Ma la ferita che sanguina
è l’essenza arcana del Sé profondo:
senza ferita non c’è un mondo
La ricerca continua:
il Graal è racchiuso
nella mente ed è cullato
dalla vacuità delle cose
Il Graal è una valle di nebbia
in un’ apertura frondosa
Attraversando il gran fiume
ho trovato un’isola beata
ma anche da quella mi hanno scacciato
come un randagio sono stato allontanato
Quelli come me odorano di sangue
e non trovano riposo sulla terra;
e neanche la morte li libera:
ma questo è nella natura delle cose.
E anche il tradimento
che portano al collo
come una fulgente collana
è nella natura delle cose
Non ho conosciuto altro nella vita:
sono immerso nelle acque stagnanti
della menzogna sin dal giorno della nascita
Ma almeno mi segue
questo fedele randagio
che si stringe a me
nelle notti di gelo
Ho solo lui e il mio destriero
Non ho altro.
Ieri notte ho sognato una donna rattrappita
in una cella senza aria: era la mia anima
E non riesco ricordare
un’immagine luminosa
nel mio passato:
tutto è avvolto
da una nebbia cerulea:
il mio passato è un buco nero
Ed ora, mentre soccombo
alla tristezza alimentata
dal grigiore dell’oceano,
procedo verso un chiarore inconsistente
che dicono sia il non – luogo dell’anima
Il Graal è la luce diafana della mente:
cercarlo è, forse, il grande peccato.
E quando sospinto da Borea
giunsi in un antro ameno
ricolmo di fiori
la follia mi esplose nel cranio
e ricordo la luce bluastra
emanata dalla mia testa ferita
Ora è duro comprendere
perché è divenuta evanescente
la mia magia che non
incanta più nessuno
sono un otre vuoto
con sentimenti di vento
e nessuno più ascolta;
quando uno, come me,
cade nella commiserazione
ha finito di vivere
Ma mi apre il cuore
la luce radiosa del mattino;
la luce è un dono divino
questo lo so perché
mi arrabatto nella notte
trascinandomi “sotto il peso
logorante della vita”
E tutta la gioia svanisce dal cuore
perché il nostro esistere è una finzione
consacrata agli dei
Ma questo sapere gli antichi
lo nascosero in oblunghe caverne;
e io consegnai il mio insulso dire
a una donna che guardò le mie cose
e che inconsciamente mi odia
Ma ora muovo gli argini del mio sentire
e mi spingo verso le frontiere imperiali del nulla
Sono la figura curva
che vedete ruminare
tra le strade muscose del mondo;
l’ombra l’ho persa
in una notte di luna
e non mi è rimasto più niente
È folle donare lo spirito
separato dal corpo,
soli i folli separano
il corpo dallo spirito
Ma possa l’Angelo della Morte,
chiudermi gli occhi
con le dita diafane,
e che avvenga
in uno sconvolgente tramonto
tra foreste fruscianti
Come sono finito ad amare
questa donna non so:
era zoppa e minuta
e aveva uno sguardo feroce
che mi dava il tormento
ed ora che si è gettata
da uno svettante palazzo
mi tortura dall’Oltre
mi artiglia il petto con le sue
grinfie invisibili e mi stringe
La sposai per compassione o per tristezza?
Non so. E io che ho amato solenni bellezze
sono finito nel tugurio del teatrino dei sensi
e profondamente mi vergogno
Ma perché mi insegue oltre la morte
e non mi da tregua? Perché non si placa?
Io come Stavrogin sposai la storpia
per commiserazione e pietà.
Per punirmi.
E andai contro ogni logica
mentre il mondo rideva.
Ma perché? Cosa mi prese?
Perché lo feci?
Quella donna mi devastò la mente
con le sue dannate insulsaggini
fino al tremendo suicidio
e io l’amai con tutto il mio cuore
e con l’ardore dei sensi
Ed ora che sono libero
da queste ebeti passioni
lei riappare con i suoi artigli di sangue
e mi trascina nell’orrore del vuoto
E non dormo. E mi sveglio la notte.
E ho un dolore tremendo nel petto.
E non vedo; e non vivo.
E mi chiama. Mi chiama nelle notti di luna.
Fu un incantesimo?
Cosa fu?
Come posso placare quest’orrore molesto?
Come posso placarlo?
O lo placo o ne muoio.
E quando vidi la nebbia
calar nel giardino
tutto era intriso
d’innaturale mestizia
allora, li vidi
con gli occhi dell’anima
e sapevo che ero alle soglie della morte
ma il corpo era solido
Ed erano presenze
di luce sovrabbondante
nel calar della sera
E dissi: fratelli spezzate
le arrugginite catene:
è tempo di tornare
E dissi: io ascolto lo strazio
dell’erba che cresce
ora fatemi andare
E intuii che ridevano
e intorno c’era
un silenzio glaciale
Ed io che a nulla credo
non so a chi raccontare
non so con chi parlare
E dissi: fatemi tornare
e qualcosa mi colpì
nel centro del petto
e mi fece cadere
Ed era come se irridessero
la mia debolezza
perché pretendevo
un’uscita dal carcere angusto
che non mi potevano concedere
E lacrimavo e loro ridevano
ed ebbi il senso lancinante del vuoto
e della pietà calpestata
e capii che il ritorno è negato
Da quel giorno perdetti
il piacere delle cose del mondo
e mai più li rividi
Ha ragione la donna che dice la lontananza è irreale
E pensavo di trovare un varco
nella grande muraglia
che non riuscivo a scovare
Ora vedo il mio volto riflesso
nello specchio e lo odio
e non riesco a capire
E sono ricolmo di visioni
ma non so più a chi dire
non so a chi narrare
Quando le cose si destrutturato nella luce
è cosa vana intendere gli eventi del giorno
ed è sufficiente il suo male.
Il tempo l’ho trasformato e l’ho appeso
tra immoti, luminescenti animali;
e non c’è più terrificante dolcezza
della tua perversa memoria
che contiene cose che immaginai
vagamente
Quando eri sospesa
nel chiostro italiota,
nel colonnato gotico,
mi si curvò impunemente la testa:
allora non capii.
Ora ricordo: gli occhi
del simulacro di basalto
sorrisero. Ma ora non sorridono più
e neanche tu più sorridi.
E se vivi in un bugigattolo
ti appendi a ogni sporgenza luminosa
perché il resto del mondo è vago,
è transeunte, e pensi che qualche
escrescenza spugnosa ti possa sostenere.
Il male è assai diffuso
e se riesci a superare le subdole, sottili,
nefandezze del secolo forse capirai
Noi abbiamo visitato le nostre anime
ma se peserai le cose con il bilancino
purpureo, ti sfuggirà l’essenza del grande
arazzo e soccomberai alla vita
Io, sono qui che celo la morte del cuore,
avvolta in uno scarlatto mantello
e, figlia mia, a che vale la vacua beltà
quando splende negli occhi lo Spirito Santo
Perché di Spirito Santo sei ricolma
e non lo sai e ti senti fallire
ma se lo sapessi scavalcheresti l’Acheronte
Ascolta: delle volte il cuore si incrina
ma senza coraggio non c’è vita
e bisogna sopportare questo placido orrore
E che idiozia è il non comprendersi
e sacrificare all’immonda realtà la grandezza
perché di grandezza offuscata si parla.
Io, Zeno, non mi sono solo aperto
mi sono spalancato davanti al tuo incedere
Ora sono qui, e mentre mi scannano rido
e non prendo sul serio neanche il mio ultimo giorno.
Io sono Zeno e ora mi piego
perché sospeso nell’indeterminatezza.
Ascolta: lascia che la mia fronte
si appoggi sulle tue mansuete ginocchia
e accarezzando con le dita diafane
lo scabro cranio, espurga il male
del mondo.
La luce è succhiata dal mare
O la luce risucchia le onde
L’oceano è trasfuso nel cielo
Le onde farneticanti indicano un divino movimento
Il sole sbianca il mondo, lo abbaglia e lo acceca
Un torrido silenzio si leva sulla natura piagata.
Quando lo vidi elevarsi con il capo cinereo
oltre i cumuli tormentati fui colto da timor panico
Rifulso dal sole aveva lo sguardo esaltato del pazzo
Poi si bilanciò sulle onde
La chiglia beccheggiò nel silenzio assordante
E tutto si frantumò in fili argentei di luce
Una luce insostenibile e sovrabbondante
Un’onda squassò la prua nodosa
Mi sono abbattuto sul remo folgorato dal cielo
Ho gli occhi stanchi di pensiero e di luce.
Quando giunsi alle soglie della liberazione
capii che era inutile torturarsi
Ora uso un linguaggio piumato
che oscura la vanità dei pensieri
Il mondo è composto da struggenti solitudini
da ego indistruttibili, inossidabili
paurosamente perversi per la loro ottusa volontà.
E non sarebbe un gran male
se questa specie si eclissasse
La liberazione è come un balzo nella notte
giunge e neanche te ne accorgi.
E quando sopraggiunge tutto impallidisce,
si attenua, si scolora e svanisce nell’indeterminatezza
Ora che il mondo si è disteso
davanti agli occhi feriti
si è frantumato il grande mosaico
tutto è in uno stato insostanziale
E in me si insinua qualcosa
che è simile a un’evanescenza luminosa composta
da accidenti trascorsi e totalmente incomprensibili
Deve essere stato il susseguirsi di assurdi eventi
che ha rammollito il mio fisico
Ora nel centro del cranio si è sviluppato un uragano
che scuote la mia psiche nella notte tenebrosa
Infine chi sono?
Sono un nodo di sensazioni tenute insieme
da un centro sfasato
Se si dissolve il centro sopraggiunge la nera notte.
E’ questo il traghettarsi verso l’Ade.
Ed è lì che uno vede il bianco cipresso e il Centauro
che bacia il santo nella cornice dorata
Ma se desisti puoi osservare le nubi
che giocano con il sole.
Si è girato verso la grande estensione
L’estensione è una mescolanza di boschi immersa nella bruma
E il suo essere la travalica o si immerge in essa.
Quando non sarà più l’immenso lo sovrasterà
come un mondo di luce che soprassiede sulla tenebra
Quando non sarà più le cose saranno comprensibili
perché superanno l’irrilevanza del tempo
E quando supereranno l’inadeguatezza del tempo
la foresta si placherà e spalancherà un nuovo mondo
E da quel mondo apparirà lui, lo straniero,
con le vesti polverose e discinte
e parlerà in un linguaggio balbettante
Anche Clitennestra quando vede per la prima volta
Cassandra ascolta il suo linguaggio farfugliante e dice:
“Non mi abbasserò a gettar via le mie parole”
intendendo: non farò sforzi a comprendere
un essere che emette grugniti.
Cassandra per la regina è una pazza
come per i Jones è folle il musulmano
che raccoglie la merda dei cani nei giardini
Lo straniero squittisce come le larve dell’Ade
Lo straniero è l’alterità che sconvolge
e che è meglio allontanare.