Sezione: Poesie
Dal libro occidentale dei morti: Indice
Vi dirò del mondo
formicolante
e del suo leggiadro espandersi
e delle strutture basilari
erette a fondamento
che crollano nell’oblio
Alla conclusione della storia
nel nostro cammino sussistono
i frammenti atomizzati
del nulla
Ma in questa opaca
luminescenza
brulica ancora
un potenziale universo
Vi dirò
tra i mutamenti epocali
uno si acquatta
e sussiste
come un prigioniero
in un bunker desertico
ed è l’inganno dell’uomo murato
nella prigione del mondo
Più tardi
en passant,
la rivoluzione mastica i suoi figli
e come un vortice
conduce verso le radici
dell’ombra
verso un punto oscuro ove tutto è dissolto:
ma questa è la giustizia delle cose
Vi dirò
alla conclusione
della storia
le parole sono macerie fumanti
sono lo spazio dischiuso del mondo
L’essere
nell’immaginario collettivo
come struttura fondamentale
scaraventata
nell’oblio
Nella vulgata
appare
come angelo del chiosco
trasecolato
tra i mostri di tufo
ed i cadenti capitelli
Ma Dio non appare
nell’eterno luminoso
e come un viandante adico
immerso tra le colonne di porfido
si manifesta e svanisce
in una tremolante eternità;
più tardi
si compie
negli attimi fiammeggianti del terrore
quando la lama saetta
e costruisce fatiscenti
utopie
Dopo il crollo epocale
lo svendono agli Ismaeliti
a prezzo ridotto
e finisce sul lastrico
del mercatino italiota
alla fine un flaccido eunuco
lo sceglie tra le deturpate coscienze
del mondo dell’apparire
ove l’illusione tradisce l’essere
e lo rende esangue come una larva
tra le mura muscose
si ritira
tra silenziosi animali e piante
fruscianti
“Mihi sufficit in angulo
monasteri sussurrare”
e fissa il vuoto orbitale
del tempestoso cielo
Dalla sdrucita tenda
ti osserva Pizia
con gli occhi iniettati di sangue
e tutta l’egomania
è contenuta nelle crollate spoglie
di corpi deleteri e deformi
corrotti da demenziali fornicazioni
come se possedessero
la terra
ti ascoltano Pizia
mentre erutta il gorgoglio inconcludente
Febo ride
Verso la fine del tempo
le cariatidi stanche
si chinano
crolla il frontone di Sifnos
si spegne il divino litigio
Dal tempio di Atene Pronaia
erompe un pianto dirotto
gli converge tra le ossa parietali
l’abbrutito mondo
glielo dissolve nel suo cranio
da formica l’esplosione epocale
Quando torna nella vita
non balbetta
non quisquilia
e si lascia morire
nella perfetta banalità
Il mio volto
è crollato
la struttura del mio animo
è collassata
il soffio vitale esce
dalle narici
come da un otre bucato
come il sospiro
di Ade
Ho coltivato il silenzio
il giusto non fare
nel senso della terra dell’Occaso
Quando scendono
computi
dal baldacchino
dei semidei
esprimono parole concilianti
ispirate dalla pace interiore
Quando escono fuori di se
e non conoscono
la via sapienziale
del ritorno del corpo
vagano in una stratosfera
ectoplasmica
ove l’agire assume un livore
inconsistente
Nel frattempo
svaniscono gli dei
ed anche ritrovarli
o custodirne l’ombra
non è cosa da poco
Dai frammenti intuiscono
tutta la baldanzosa
cosmogonia del primiero
e giungono ad un impreciso
sapere che li lascia
curvi e incompiuti
nel demenziale incedere
In essenza:
nella testa di Odisseo
perverse allodole
hanno costruito
un sempiterno nido
poi tutto sconfina
nella leggenda
Nel portico dipinto
da Polignoto
sono tornati i demoni
rimangono
gli angeli nella mia cella monacale
Tra i frammenti presocratici
ho ricostituito
la mancanza
con elucubrazioni sul fuoco e sull’aria
e più tardi su un incomprensibile logos
ma se vivi l’età della tecnica
come puoi comprendere il logos
che si staglia sullo sfondo ceruleo?
Il logos
non contiene il male
ma immortale e imperfetto
tutto raccoglie
E cos’è l’imperfezione?
La sua provvidenza è demiurgica
ma non è padre di tutte le cose
e si identifica con l’essere luminoso ed opaco
mentre negli incorruttibili
cieli bivacca e nell’abbandonata terra
Dice Cleante: gli astri non sono prodotto del caso
Ma allora dove conduce la tua pressione infinita?
Oltre la barriera tenebrosa
rispondi
oltre la grigia compattezza
oltre la falsa gioia del massacro
Verso la luce
dici: quando l’anima è sovrabbondante
il corpo non la contiene
La bellezza
del silenzio divino
è questo spazio
di esaltante libertà
come un orizzonte
che annienta
L’eroe classico si appanna
in queste brume di apparenza
e cerca di formulare
un mondo di coerenza
di unificarlo
con una ricetta universale:
un compito inaudito:
il labirintico cercare
conduce alla grande ramificazione
e a nulla perviene
la cattedrale di nozioni
espressa dal balbettio scomposto
diviene un accorato silenzio
nulla più emettono
le labbra siderali
verso sera tra le sfumature grigio-celesti
attraverso i riflessi allettanti dell’apparenza
si definisce l’eroe positivo
nei limiti dell’olimpica misura
ma il disegno geometrico
è insulso
si bilancia
l’eroe positivo
tra i grandi thaumata
del mondo
C’è da riflettere:
nel ventre eburneo
dell’infinito Zeus
albergano topi
Le colonne di calcare
si sbriciolano
nel sacro temenos
ondeggia
la terra danza sotto i suoi piedi
si contamina
attraverso il suo corpo
discendono nel suolo
le miriadi di colpe
gli atti di sangue
La sua stirpe sovreccitata
domina il mondo
nel tholos cinguetta
e crede di raggiungere
la grande madre oscura
nelle viscere della terra
Febo ride.
All’origine
non era così
più tardi la mente si ridusse
ad una poltiglia bisunta
e quando giunsero
le cime siderali
l’anima si raccolse
– ma solo per attimi –
in una sentita reverenza
Dissolvere questo crampo
interiore
questo strumento dello spazio – tempo
è un disvestirsi dell’ego
un fuoriuscire da limiti anali
Coglionerie buddiste
– mi dicono –
sulla lacera tematica dell’ego
Ma se vengono meno le barriere
se si liquefà la monolitica apparenza
posso descrivere in dettagli
questo sentimento di orrore
e di grande liberazione
come un valicare di ponti
mirabili su un vortice spaventoso
che conducono ad un’imperiosa
attenzione verso il non – umano
Mentre ti incalza la vita
con le cianfrusaglie
del pervertito sentire
ascolta:
Mai tradire il tuo demone
Tra le astruserie
imperturbabile
incede
l’illuminato
alla fine è dovuto risorgere
dalla sua vita
e non sapeva
il meschino
da quale luce
l’impulso provenisse
Né in quale terreno
aveva affondato
le radici
poiché si diramavano
per campi differenziati
si espandevano
per terreni
insufficienti
Nel mondo intelligibile
il demiurgo copulatore
ci consegna alla materia
Osserva tra le nubi
Lao Tzè retrocede
verso le montagne
occidentali
e il suo apparire e svanire
è l’impronta sbiadita di Dio
Tra i detti del tempo
c’è una sura desertica
che dice:
insistere nel dubbio accelera
la fine dei mondi
A chi desume che tutto si manifesti
ed abbia origine
dal grembo degli dei
a chi tentenna
e crede che la realtà oggettiva
sia una sinecura fumosa
il demiurgo copulatore
risponde:
concentrati su una sana defecazione
prova il rutto post – vaginale
alla conclusione del coito
che libera l’anima dalle scorie
del pensiero ed esalta lo spirito
ed ancora per l’immediato dice:
il pitone della storia vi strangola
il Nabucodonosor da operetta
si spezza
mentre visita il palazzo di Ubris.
Ma che serve
mantenersi
nella memoria
con occhi dolorosi
quando
arida è la fonte
e le parole
nulla significano
questa frantumazione
che ha il colore dell’aurora
è epifania d’illusione
le cose passano
le raccoglie
le destabilizza
col distruttivo pensiero
le stravolge
le reinterpreta
le espone alla demenziale violenza
del corrotto sapere
Alla fine
uno è solo
un oscuro poeta
se poeta è
e si avvia verso
le cime dell’Essere
intuendo
il grande abbandono
Ad un esistere
fuori centro
tutta la sublime cianfrusaglia
dell’età della tecnica
non serve
E’ un clamoroso naufragio
Alla fine gli dicono:
confrontati con la casa nera
dell’Essere
con l’orrore banale del giorno
Dio è una bambola,
risponde,
una grande bambola universale
Verso sera
raggiungere la torre derelitta
nella natura decrepita
Si conclude il viaggio:
Ubriaco di grappa
ritorna al pandemonio
del mercato
Un’attenzione
breve ed intensa
nella luce del sole
poetare
è l’innato silenzio
delle cose
Il situarsi per attimi
nel centro dell’illusione
L’oscurità
appaga il tuo dire
è complice
è come una lama
emergente dalla bocca
Febo risponde annoiato
all’Apostata
con la voce addormentata
da secoli:
“Lascia andare.
non rompere
con questa furia di morte.
La sacra fonte è arida”
E chi ripagherà dopo la grande
ecatombe
il sangue delle tue bestie innocenti?
Com’era gelido
il vento della morte
di Dio
come lo sentivi
negli interstizi feriti
dell’anima
Era come esporsi
su una cima di un monte ad una
glaciale bufera
di colpo le cose del cuore
svanivano
E non ho mai compreso
come l’inanimato fosse
fondato sulla luce
come fosse eretto
il regno luminoso
sul terreno dell’esistere
come potesse la Luce
della Luce contenere
il flusso del reale
che ti piega
ti umilia
ti demolisce
mentre procedi armato
di sovrumana impotenza
Ma affermano che sia
l’opposto
che il senso delle cose
sia dal pensiero stravolto
e trasformato nell’apparenza
dalla precarietà
Almeno questo
ti sia possibile
in questo oceano
di fuoco:
che la testa vuota
liberi infine
la leggiadra Shekinha
esiste poco di preciso
al riguardo
La presenza di Dio
è eternamente esiliata
l’angelo della morte si presenta
con il sorriso ironico
del mariolo
per concludere il tuo
tetro rantolare
Non attaccarti alla vita
come un moscone alla merda
pensa allo sprofondamento nirvanico
nel nulla
Ma evitiamo le altisonanti parole:
Azrael fuma una schiacciata sigaretta
mentre attende paziente
l’implosione del tuo corpo
e della razionale follia
Come ha risentito la distanza
delle vette luminose
tempestate dalle gemme del sole
e come gli era impossibile
trascendere i limiti di questa mandala
maledetta composta su sabbia
da epigoni immondi
Ascolta:
le cose brutalmente
escono dal nulla
e brutalmente
vi ritornano
almeno questo concedi
non menarla con
il dolore cosmico – universale
interpreta meglio:
questa teoria di spettri
converge
verso il cuore nero
della mandala
ed è come un’emanazione
sfilacciata
che punta
verso il centro recondito
delle cose
Le cose minute
gli scaturiscono
dal cuore
Le cose distrutte
le raccolgono nel grembo
nel grembo oscuro
del suo destino
le accarezza con la mano tremante
le esprime
nella luce della mancanza
diviene lentamente
avaro di parole
Lao Tze procede oltre i defunti immortali
e le cose degli uomini?
L’alta tecnica odora di morte
la falsa gioia è come un ghigno di un teschio
Lao Tze procede oltre
la barriere di nuvole
oltre le terre azzurre
dell’occaso:
Primum vivere
deinde philosophari
Ascolta:
in questo nulla
la compassione è l’unica via
A Daphne
duemila uccelli
Immolati
a questi dei – morti
che rantolano nenie
e polverose profezie
Rimuove le ossa e la putredine
dalla sacra fonte
la porpora diviene
cenere e polvere
Ed è tutto un naufragare
in una inconcludente menzogna
Troppo perverso questo incedere
verso la vetta del grande monte
o del piccolo monte
se preferite
il mio essere deteriora
più semplicemente
si dissolve
ma finiamola con questa visione amara
dell’esistere
mi si invita a vedere le cose
dal lato dell’ottimismo
ma dov’è il bene del mondo?
dov’è il bene delle cose
gettate nel cerchio dell’apparire?
A domanda rispondo:
“Bisogna vedere con gli occhi
della luce le cose del mondo”
Ma sento un male sovrabbondante
e salgo per i sentieri del monte
per catturare le sacre parole
sono circondato da bestie fameliche
che sono della stessa essenza
della luce primiera
Altri metodi
altre vie:
E’ tutto ad un centimetro dal naso
e la vita è ricolma di minutaglia,
di cianfrusaglia altisonante
che nulla ha a che fare
con le cose
per superare questo calvario di ghiaccio
procedo senza abissi o fondamento
è tutto ad un centimetro dal naso
e fumo un toscano
nell’incomprensione generale
Poi mi sono immerso nella luce
e le grandi immagini fiammeggianti
si sono addensate
Angeli cantati
con le ferite dell’anima
angeli austeri
privi di qualsiasi fondamento
angeli cantati dai vili
nel terrore del meriggio
esseri brulicanti
nell’infinita instabilità
E ti rispondono:
“E’ sufficiente un attimo nostro
e le cose saranno placate”
E benamato
dagli Dei
sei retrocesso
rapidamente
verso il nulla
senza onori
senza ghirigori
senza manifestazioni di vanità
Anche il grande ritorno
è un ciclo di sfocati colori
non di tumultuose fiamme
che ti esplodono nel contaminato
essere
“Chi ha cancellato con un colpo
di spugna l’orizzonte?”
Tutto ciò che è volontà di potenza
è puro ego
Anche l’incapacità di misurarsi
con il silenzio dell’anima
Saper attendere senza chiedere
è la grande arte
Dal cuore della notte
qualche segno emergerà
oppure non emergerà
Tra le profezie tue
c’è quella del vento
che scuote l’interiore orbitale
e vocifera
mormora nell’intimo,
indica una via stralunata
verso le luminose intuizioni
Così, narrano
gli epigoni,
si esprimono gli dei
nei grandi atri
quando raccolgono il vento
e lo plasmano con la forza
dell’invisibile
Senza la furia del vento
nulla accade nei vuoti androni
gli immortali
non sussurrano le parole
che a volte giungono
nelle tormentate veglie
Ora
i tuoi dei
sono silenti
nel mondo degenere
mentre angosciato attendi
il segnale che mai giunge
Siamo onesti:
tutto nella luminosità
pesantemente
ti ignora
Tra i grandi limiti
delle cose,
tra i rimasugli
del tempo
questa gatta nera
immota
con la sua stella di luce
ti osserva perambulare
nella tristezza tua
Questo tramonto sfumato
sui ruderi dell’età della tecnica
ti sovrasta come un paralizzante sentire
che assorbe tutte le cose
Elaboriamo una vita:
il voler dare è impossibile:
sei spiritualmente un eunuco,
un essere ferito,
un naufrago su un’isola
di miasmi e paludi
a La Higuera
ti devastano e ti pongono
su un sepolcro marmoreo
come un Cristo straziato
con gli occhi ripieni di vuoto
ed il petto forato di colpi:
è la via dell’azione basata
sulla contemplazione del mondo
Quando si agita
nel vuoto orbitale
nel grande concavo spazio
costruisce la casamatta
di cenere
nella pienezza
del secolo prova l’assenza
con una ciotola consumata
elemosina uno spettro di significato
Ma come è possibile
che tutte le energie si risolvano
nel nulla?
La bestia apocalittica
è questa tigre che si strugge di fame
Dio, forse, dice:
“Devi attraversare
la palude della precarietà
con le tue forze illusorie”
Queste cose
le intravedo confusamente
e le ascolto
come un bisbiglio incoerente
come un frusciare di fronde
ho pensato la luminosità
e le grandi foreste
che dischiudono
l’anima
Ma ora,
le cose
si tramutano
e una luce violenta
le perpetua
Era come un ombroso Minosse
egemone su un popolo di ombre
in un lercio Sheol
ove trafficavano
i suoi accoliti di tenebra
Poco originava
da quel mondo
neanche un anelito
di stanca purezza
In questi eterni faggeti
la luce piove dall’alto
come dal rosone
di una distrutta cattedrale
Il viaggio continua
quando nel pieno dell’afflizione
esperimenta una glaciale immobilità
Il vivere suo è un debellato poetare
un vacillare lento
verso i confini del nulla
come una formica vagante
tra i margini di un lago fangoso
in una terra essiccata
gloriosa, titubante
nell’onnipotente inanità
Ma anche questo
domandare e raccogliere,
questo proteggere
nei limiti del tempo
le cose sospese nella luminosità
è sacro
quando il corpo
discende nel decadimento
e gli eventi annientano
le scarne parole
questo umile proteggere
è una forma di accorata pietà
E beati coloro che godettero
l’incontaminato silenzio
e il bacio luminoso delle cose
beati coloro che intuirono
la luce ipersensibile
e non crollarono
vinti dal male
beati coloro che cercarono
la giustizia
e massacrarono il loro corpo
nel tentare di farlo
Definiamo le cose:
ricostruire Dio
rimetterlo insieme
come i pezzi di un meccano
è impresa ardua
è un compito di micidiale portata
Incollare l’immagine
fratturata, atomizzata
richiede la pazienza
di un certosino
Le prove ontologiche
lasciale ai pazzi
ai borghesi benpensanti
a coloro che nel turbine
pensano la stabilità
Tutta la solitudine
e la precarietà
in un punto si concludono
nel centro sfocato della tua mente
come in una melanconica valle
confusa con il grigiore del cielo
Legata al sacro onfalos
mentre gli oppiacei bruciano
emette assisa
sulla pelle del pitone
il gorgoglio ininfluente
Febo è traslucido nella sua immobilità
Ma Apollo
che ha a che fare
con il mondo?
Che ha a che fare
con questa razza di storpi gaudenti?
E perché genera profezie
verso i distruttori della terra?
Il libro occidentale dei morti
decreta che nel passaggio
del grande Bardo
i simboli devastati dall’inanità
si presentino nel vuoto orbitale
della mente crollata
Dalla radura del bosco
riemerge
nella sacra immobilità
dell’essere solare
ma quando l’esistere si devasta
si dispiega nel cielo
l’immenso centauro
di nuvole e polvere
e le vergogne del vivere scialbo si dissipano
nell’ombra della metafisica sera
più tardi procede
verso la montagna purpurea
e riceve la visione delle cose finite:
è la via della morte occidentale
Oltre il primo stadio
assorbe il bagliore
Perché lo hanno preservato
dall’universale massacro?
A che è servito tanto proteggere?
E’ una forma secondaria di morte
questo bisunto sentire
questo feroce accumulare
produce il Bardo
singolare della terra dell’Occaso
Gli strappano il ventre gli artigli
del santo redentore
tutto si sfoca in una visione di sangue
Ma a che punto
è il roteare del giorno?
Ma l’essere
gettato in questo cerchio
ci ascolta
l’essere ferito
nello spazio della luce oscura
ci ascolta
e ci distrae momentaneamente
dall’apertura del dolore
L’esistere è un episodio tumultuoso
gli esseri macellati dal mondo
pesano sulle spalle come una croce
il cuore ne sanguina
mentre sei diretto al calvario
resta questa solitudine
puoi giocare con le cose
della terra
ma a nulla approdi.
Questa gatta mi si stringe
perché salvata dalla morte
anche lei trattenuta
miracolosamente
e forse ingiustamente
nel cerchio dell’esistere,
vicino a questo malnato,
allontana il terrore della morte
Esseri gettati senza alcun fondamento
nel vortice della vita
della vita diluita e senza centro
delle cose distrutte
senza straccio di luce restante
con il pensiero vagante
come una folgore nel cielo tenebroso
Alla fine rimane la morte
secondaria
come apice dello scarso esistere
Tempo d’infamia
questo
tra le foreste
distrutte
vado sul monte
a raccogliere parole
in questa età di assenza
le tracce di Dio
sono queste lattine
di birra schiacciate
questi sventrati
sacchetti di plastica
come defecazioni di angeli
Gli si sta scollando
la carne dalle ossa
ed ancora la mena con il suo
sogno di potenza
Nell’instabilità
che procede dai sogni
l’io narrante
si perde
nel mistero degli oggetti inanimati
Germoglia come un fiore
la sua potenza barbarica
il “cor curvum”
emette la minutaglia
del naufragio
e la deposita sulla sabbia
dell’uggioso squallore
lacrimosa la vita
la seppellisce
con il tumulto delle onde
Nessuno ascolta
e perché dovrebbe?
Anche il vento abbiamo
ucciso
Le cose erano esterne
alla visione di sangue
originavano dal logos silenzioso
esterno alla violenza delle mente
le cose nel sogno erano arcane
erano esterne alla potenza del sangue
Lontano da un ipotetico centro
le cose intonavano una nenia
un cantico di distrutti balocchi
le cose erano esterne allo spazio del Cristo
erano fuori dai luoghi del sangue
Come tristi balocchi
eternamente pazienti
manipolati da un demiurgo distruttore
erano escluse dal piano divino
io le intuivo nella sfera dell’incompiuto dolore
e le cullavo nel cuore
nel mezzo della totale incomprensibilità
Chi capirà queste parole?
Passeri silenziosi
mentre volate oltre la siepe
si dissolve il tempo
oltre il tripudio di luce
oltre il terreno asfodelico
Nel liquido amniotico della morte
il centro ulcerato sfuma
e si apre alla potenza d’un dio
Ti prendono per mano
gli eventi della persa stabilità
ed è come chiudere un mondo
all’Essere che solertemente
ti contiene
Le pietre hanno raccolto
la tua preghiera
le cose rigenerate
ritornano nella luce del meriggio
addormentato sulla tigre
ti sbrodoli, ti liquefai nel sonno beato
mentre ti gratti i consumati testicoli
Ti affronta nel sogno
un uomo trafitto da una spada
“da oggi sarai un’essenza vegetale”
ti dice
“sei parte dell’indifferenziato”
Tra le cose dolorose mai un reietto
tra gli esseri irretiti estraneo
alla contaminazione
vaghi per la terra come un alieno
il tuo calvario assurdo
è in un senso indescrivibile
Non potevi curarti di tutto
il cuore non reggeva
come i poveri
ti barcamenavi nel mondo dei morti
tra mille espedienti
trascinando il corpo derelitto
forse è in un senso offensivo
ma questa notte dell’anima
è senza fine e fondo
Le cose si dividono
non si uniscono
non sono legate da un filo
di argento
il principio di individualità
inesorabilmente le separa
O non è così?
Va bene.
Ridefiniamo le cose:
luce sparsa e irriverente
emessa da un pallido centro
ove un’entità emaciata
si esprime in una mestizia infinita.
Perché siete giunti così tardi
nel territorio di Chandos?
Esser divisi in due
non è un grande problema
se le parti riconoscono
una certa armonia
ma hanno vissuto male
senza bagliore
L’anima gli è stata tolta
e poi restituita
quando individualmente
hanno rivisitato i “loci”
della loro perduta infanzia
Questo cane abbandonato
e Macilento è il Cristo del Secondo Avvento
chiusi nel cerchio della loro concupiscenza
nulla vedono
le cose sono per loro la tremenda
realtà del visibile
le maschere sataniche non contano
l’unica cosa è questa voce
che alberga nel profondo del petto
tutto il resto non ha consistenza
Nel sogno Merlino
è fuso con Artù,
ammantato di verde
allarga le braccia verso
una possente Ginevra
l’immagine appare in frastornati colori:
rosso sangue, verde cupo, azzurro profondo
Merlino con le braccia aperte
si muove verso Ginevra,
mentre appaiono dei cavalieri su un picco
Nel sogno Artù appare riprodotto infinitamente
le prime due rappresentazioni si muovono
verso la regina
la terza scavalca il castello e si riproduce su una balza
la quarta risale il dirupo
la quinta va verso l’orizzonte
la sesta appare lontana
le altre si perdono nel nulla
Ginevra ha aperto le braccia
ma Merlino – Artù la trascende
Ho piegato la testa sul petto
come un monaco di Athos
Che ci faccio qui?
Merlino – Artù giunge a compimento
Ascolta:
questa ferita la puoi curare
con estrema tenerezza
puoi cullarla,
sino alla chiusura
del secolo,
come un neonato
avvolto in candide fasce
Ricorda
tra i dirupi del tuo sentire
si nascondono le cose
la dimensione tua
è quella del fuoco
ed è un processo maestoso
di fiamma
Ma questo mondo non so cosa sia.
L’ io profondo è uno sciame di voci
come vele lacerate dal vento
e naviga l’oceano della perenne turbolenza
E non so se mai raggiungerò i prati asfodelici.
Questo non so e non mi è dato di sapere.
La santità che è un’eredità pesante
Quali sono gli atti che fanno fuggire?
L’anima diafana, come la peste, la evita.
Sempre la fugge.
Ciò che traluce nulla brama.
Ciò che è oltre non desidera la minutaglia opaca dei santi.
La misericordia infinita
crea esseri che si dissolvono nell’abisso del nulla
Precipitare nel nulla significa
L’annientazione di ciò che esiste
Quel centro di siderale aridità
dove le cose si dissolvono
è il luogo del Dio senza nome.
Ciò che rimane
tornerà alla terra sofferente
E forse
dopo l’estinzione
sarà necessario
coprirlo di edera come la testa
di un defunto imperatore;
ma un residuo,
dicono,
s’illuminerà di luce
dopo essere transitato
attraverso le brume grigiastre
del mondo.
Tendenze misticheggianti da basso impero del cuore?
L’essere svanisce,
si dissolve
resta solo un pulviscolo
come una memoria assillante dell’attimo.
Neanche eri nato
e già concupivi lo spazio degli dei
per estendere l’Imperium
sino alle opache frontiere del cuore.
Poi le cose si sfaldarono.
Il reale si strinse intorno al centro velato.
E discendesti in una gioiosa nefandezza.
Ora sei vivo.
Esisti senza speranza.
Autenticamente abiti il tempo.
Il mio essere
è come una luce in un pozzo
che vagamente intuisci
è sepolto dalle scorie del tempo
E’ come un bagliore d’aurora in una notte profonda
L’ultimo Iddio si manifesta nel silenzio.
Almeno ho salvato una farfalla dalle forze infernali
ed ho vagato tra gli speroni tufacei del mondo
Il viaggio ha afflitto il mio cuore.
La mia fiamma è statica
e sussiste nella suprema immobilità.
Secondo un peculiare modo d’essere:
solo la tristezza delle bestie
illumina il silenzio dell’ultimo Iddio.
Mi pesa il calcolante pensiero
Mi lega alla logica delle cose derelitte
Mi porta nel cuore sfuggente dell’inessenziale
Il cuore delle cose è nel regno segreto della precarietà.
Forse un errore?
Ma noi, reprobi, lasciamo uno spiraglio di luce.
Anche negli esseri predestinati agli inferi
esiste una labile traccia di misericordia.
E fu un glorioso
dissolversi di capitelli
nella luce della cripta muscosa
Ed anche le sue ossa
si dissolsero
nel riposo meridiano
quando i demoni
imperversano nel Tempore Famis
Fu un cimentarsi
con ciò che è alto, nobile
armoniosamente bilanciato
e dotato di sublime sentire
Ma come fui esposto alle lordure
di uomini fiacchi
nello stagliarsi della sera
Ecco che vaga
nel terreno fondamentale
ma il grande fuoco,
o figlio di Crono,
si spegne.
E’ di grande pietà il tuo sentire
Ma non è vero che tutti danzano sull’abisso
l’abisso già fermamente li contiene.
Così appariste nelle luce:
forme catafratte che rompevano le brume
gli elmi curvati arrossati dal bagliore dell’alba
sagome diafane nella luce della mente
esseri assottigliati dalla nebbia mattutina
ed il purpureo stendardo veleggiante verso la terra dei morti
bestie di ferro ondeggianti sulla terra
e tutto un bisbiglio levarsi dai luoghi di Ade
il suolo scosso da zoccoli potenti che incrinavano il silenzio aurorale
un oscillare cupo
un dimonico vibrare
un attraversare innumerevoli fiumi
lo spargere l’anima tra incontaminate foreste.
E come si posero in me
i tuoi uomini marmorei,
tra i campi asfodelici,
con le croci conficcate nel capo
Come si ersero le tue belve alate
tra i capitelli nervosi
E come perdurò in me l’afflizione
Come penetrò la luce piovosa nell’abside
e si diffuse nella potenza del giorno.
Improvvisamente
le cose rinacquero
dagli interstizi del nulla
Germogliarono da occhi stanchi
e da pallide fronti
E’ un caduco narrare questo vivere:
Rumi è assiso sul tavolo tenebroso
Gli angeli sono presenti
con il diavolo strambo
che sussurra nenie al maestro di carta
la luce della stanza
delicatamente li perpetua
si muovono tra le ombre del mondo
nel gioco della luce meridiana
Schopenhauer, la morte e il diavolo
formano un unico triangolo
Cosa posso dire di una vita dimezzata?
E’ il sospingere il masso di Sisifo
verso le alture dell’occaso
da dove rovinosamente
a valle ricade.
E a valle è tutto un feroce mendicare.
Mi sembrava
come se nel cuore delle cose
esistesse un punto di nera intensità.
Un centro di tenebra micidiale.
Rammendavo l’essenza delle cose sfilacciate
collegavo gli scollati frammenti
Le foreste fruscianti mi aprivano il cuore
mi calmavano l’anima
Ma il pensiero del mondo degli uomini
era ammorbante
come il lezzo del sepolcro di Dio
Alla fine questo vivere nello strazio
è elevarsi nella luce mattutina
è come l’uomo di pietra,
circondato da un ilare mistero,
nel suo epifanico mostrarsi
ma tutte le cose bilanciate nella luce
le pesi nella disarmonia di questo acido dire
Tutto è di plastica
Ormai il “cor curvum”
produce il suo mondo
Lo genera
lo emana
lo struttura
In una limpida desolazione
la volontà di potenza
erge la sua testa di fiamma.
Era un perno angelico
Con i piedi nudi
E la toga fiammeggiante
Dello Spirito Santo
Gli occhi erano rivolti interiormente
riposanti in una dolorosa infinità
Intravedeva nel silenzio,
con lo sguardo della mente
il cavaliere scheletrico
sul cavallo giallastro
E il possente incedere
di Gog e Magog
e delle schiere del male
Bestie e cose erano esterne
alla preghiera bisbigliata
e si raccoglievano nel sacro cerchio
Forme di ambiguità
sulle rive trasparenti dell’Eliso
Nel cielo cresce
un sole nero
di stravolgente potenza
e si staglia su cupe dune
I piedi scuotono la polvere
dei sandali
l’itinerario continua
Ma l’anima la costruisci lentamente
pietra su pietra
Invisibilmente la elevi
Ascolta:
imporsi di seguire
ciò che è giusto
ed esserne distrutto
non è idealismo
ma è il realismo degli angeli.
Giustamente Dio è remoto
in un iperuranio vago
Un’esistenza sottile come carta velina.
Come una foglia trapassata dal sole di autunno.
O forse è arcanamente assente da ogni cosa.
La luce non cancella il suo essere
superbamente ambiguo.
Dai limiti dell’annientamento creaturale
fugacemente si ritrae
Verso sera un fruscio.
Un’entità riflessa negli occhi di Max
sembra annunciare gli instabili messaggeri
degli ultimi giorni
Come eri lontano
E tutto il furioso esistere
era profondamente disarticolato
Un unico desiderio:
concepire la realtà
in un unico ordine
di parole e di sagome scure
come tagliare simmetricamente un “loco”
con le ombre del sole.
Nel cimitero ebraico,
tra le antiche pietre,
un gatto bianco,
essenzialmente presente.
coricato gloriosamente
su una lastra marmorea
contemplava la nudità
della dimora dei morti
Poi ti volgevi per una naturale attenzione
verso le cose
e la bestia soave era svanita
era divenuta irraggiungibile
ed esterna alla luce degli occhi.
Ecco il mondo:
l’agnello innocente
sgozzato dalla mafia
ed appeso alla porta del prete.
Cos’è la vostra vita?
Tutto questo attendere
Tutto questo recuperarsi nel caos
Ed anche l’ossessione degli oggetti
frastornati
che porta a una prostrata meraviglia
Ma ti spezza le ossa questa nodosa aspettazione
Il tempo dei roghi mi infetta
acqua cerulea dell’anima
Ho lasciato bruciare l’esistenza
tra i gorghi fiammeggianti dell’Essere
Sono un fuoco malcapitato baluginante tra micidiali tenebre.
Tutto si capovolge nell’apparire e svanire epifanico
E quello che languisce interiormente si dilata
Gli eretici silenziosi
narrano dell’accorato richiamo
dal cuore nero dell’essere
Nel secolo del sangue
tergi le mani nell’acqua cerulea dell’anima
E cautamente preservati nel tuo vuoto di luce.
Nelle pupille di Max
Intravedo una forma bianca
Mi volto e svanisce
Ma Max abbaia furiosamente
e i suoi peli si rizzano
E chissà quale sghemba visitazione
ha portato l’oscuro della notte
in questo eremo triste
chissà quale essenza ha visitato questa cella
presentandosi dalla potenza delle tenebre.
Nella terza lunetta è Cipidde
maestra di sogni
Si estende il suo regno verso l’Oltre
La sua voce ritorna dopo giorni di deiezione
Ha sorseggiato il dono apollineo
come un calice di cicuta
Ha contemplato e assorbito
il retrocedere folle
dell’infanzia verso la morte
Il Dio almeno questo le ha dato:
l’espansione della luce nel delirio
Febo ha limitato le parole
Ha espresso l’essere nella segretezza
di un semplice, purissimo atto
Poiché ingiunge che sia necessario
con il profondo degli occhi
contemplare l’errore
Il vento ti ha rotto
la trasgressione ha dilaniato la vita leggiadra
Niente resta
Tutto ora deteriora nel nulla
o è raccolto nel secchio
Breugheliano del cuore.
Mi basterebbe
vedervi crescere
sotto la pioggia scrosciante
e germogliare lenti
dalla pietra tufacea
come immagini
dell’essere primordiale
O come draghi
di un presunto male infinito
assopiti su una stele
da dove una lucertola smeraldina
saetta verso un sacro sagrato
Tutto è santo
o forse non è santo
e poco importa.
Angeli telefori sostengono
figure smussate dagli elementi
e leoni levigati dalla misericordia di Dio
Un bacio di luce mi giunge
come un attimo di gioia
così raro sulla terra
E che profonda simmetria esercitate
nella luce meridiana
equilibrati nella essenziale semplicità
Tutto respira
Qui Rachis è deposto
tra le colonne del nodo gordiano
sotto il crocifisso dal volto offuscato dal Nulla.
Ora mi inchino e sussurro:
Equanimità verso gli esseri senzienti e non senzienti.
Ma sono precipitato nell’orrore del giorno
attraverso questo dire mendace
Ma mi riscattano le allegorie della morte
nelle sue forme di pietra fatata
La morte
le bestie del dio celato
ha amorevolmente tratteggiato.
Il suo essere alato mi recupera
dalle consunte parole
che temo anche sussurrare
Solo il silenzio
poderosamente
nella notte
mi redime.
In quell’orizzonte si muoveva
nella luce diffusa
la disputa si riaccese
uomini incappucciati
detriti dello spirito
sprofondavano
nell’oscurantismo
di concetti e di brume
tra guglie e abbandoni desertici
si intuì l’unica via alla percezione:
il silenzio
a passi felpati
ci conduceva verso la morte
e diventavano patetici
l’ostentazione di eruditi concetti
e lo sfoggio della forza vitale.
L’umore fondamentale è questo verde
che si disperde in varie sfumature.
Qualcosa giunge a compimento
attraverso le voci martoriate
sguinzagliate nel cranio.
Ma “cranio” è un ottuso concetto: le idee non sono dentro.
Come eri sconvolto sul piano dell’essenzialità
come se ti avessero introdotto alla nudità primordiale
ove si abbeverano gli angeli.
Bisogna ripensare la precarietà originale
per eliminare il frastuono delle opinioni
nell’antro stupefacente dello spazio della mente.
Si dissolveva il suo ardore in un lago di luce
nella zona interiore del cuore.
In quel locus amaenus era il vuoto della mente
Nell’attimo che dissolveva il pensiero
questa grande estensione di luce si espandeva
L’ardore del santo era un demolire di spazi e di tempo
un levitare di fiamme che incenerivano il mondo
Ma la mente conteneva il mondo nel suo ardente raccogliersi
Ed era da quell’incredibile arsura, paradossalmente, contenuta.
Un cormorano
su uno scoglio del fiume avvelenato
saluta il sole con un fremito di ali
Come ti ridusse il tempo
avresti capovolto l’Acheronte
quando sulla metope smussata
vedesti germogliare il papavero
e che forza vitale esprimevi,
come Max quando
saettando da siepi,
attacca i nati – morti
Che furia livida
verso questo assurdo eclissare
avresti sradicato il mondo
Tutto quello che è nobile
estirpano:
le foreste mormoranti
l’innocenza delle bestie
la luce del cuore
Ho visto due cose
scrutando il mio esiguo potere:
il corpo di un evangelista
in un buco mortuario tra lapidi e foglie
e verso la fine del secolo,
in un matroneo luminoso,
leoni marmorei
che esprimono la potenza di Dio.
Stavolta la notte
“come un ladro giunge”
e mi avvolgo nel suo buio
come in un vellutato mantello
e le creature dell’ombra mi sfiorano
le sue cose mi toccano
le sue bestie si stringono intorno a me
Possa la luce invisibile illuminarci
Possa dimorare per attimi scarsi
nel centro oscuro del Samsara
Troppo rumore tra le tue cose:
un germogliare di santi inaciditi
e di angeli concupiti da culatoni perversi
che giocano con luccicanti rosari.
Uno sbocciare di cardinali purpurei
con deretani segnati da inaudite sodomizzazioni
E mentre uomini marmorei navigano un oceano di pietra
con quale impudicizia questo mondo – universo
di totale abiezione
si agita presso i fianchi di Iside – Maria
Quando Shiuangdi si presenta
davanti ad Azrael
si curva l’essere sotto il peso della tempesta
poiché il Primo Imperatore
pronuncia l’estrema bestemmia:
sono immortale.
L’Angelo della Morte ride a crepapelle
e gli lacrimano gli occhi di cielo.
Ma il Primo Imperatore ripete:
sono immortale
E Azrael ridendo gli dice:
L’uomo vuoto è senza ubris
e gli elementi neanche lo sfiorano
é la condizione di estrema precarietà
che crea i figli del Cielo.
Ordinanza lo guarda e risponde:
sono immortale
E l’Angelo mormora:
un giorno vidi a Jingcheng
un calzolaio così privo di ego
e mi inginocchiai davanti a lui.
Ma il Primo imperatore ripete:
sono immortale.
E L’Angelo della Morte sorride.
Questi bagliori ti colgono
come i riflessi di un lago tralucente
e sono barlumi di essenza
Dal fondo oscuro del Nulla
germoglia la rosa della compassione:
tutto il resto è vaghezza.
Gli dei si oscurano
tra la cenere brucia il divino
Così abitano il potere del tempo
Il dio incarnato ti attende
nelle mansioni di estate
nel maniero che non c’è.
In quel luogo dimora il figlio ceruleo del cielo
in quel luogo eresiarchi fasciati di ferro
e avviluppati da brume
inseguono il loro demone
in quel luogo guerrieri catafratti
curano il loro campo di ossa
e nell’orgoglio perseverano.
Parlar di se è un’infamia
bisogna demolire
questo concetto assassino.
Ridefiniamo gli spazi interiori:
meglio essere misericordiosi e dimenticarsi.
Vi raffigurerò l’infinita misericordia attraverso
gli occhi dolenti di una vecchia cagna
E dov’è il grande destino
quando girasoli
essiccati
come antiche mummie
sprofondano
nel centro abissale del mondo?
L’orrore si era insinuato
nella sacralità dello spazio
presso lo scranno periglioso
E si esprimeva
nel tragico presentarsi d’un essere abbandonato
assopito – morto presso la base di una snella colonna
Come sobbalzò la terra sotto i miei piedi
come cigolò l’armatura di ruggine e di cianfrusaglie
come si agitò lo spadone di gemme e di plastica.
Che cosa tremenda è manifestarsi alla vita
essere luce
per poi precipitare nel nulla più sciatto
L’estinzione non è evitabile ma svanire nell’orrore
è come essere assorbito dal male.
Il male è la disattenzione verso gli altri esseri.
Mi si oscurò la luce del sole
una rabbia argentea
prese possesso della mia mente
e non potevo più udire.
Nell’Occidente
uno attende
spera
sogna
ed è la via della saggezza traviata
è lo sperpero di vitale energia che chiamiamo vita.
Ma le cose germogliano
infinitamente
dall’abisso di Dio
sgorgano incontenibili
dal fondo
della sua straziante pienezza
Ora, il tempo dell’anima
è misurato dall’incandescente violenza
Ma siamo in cammino
nella sacra notte dell’assenza
vaghiamo in un demonico vuoto
Nel grottesco affaccendarci
cerchiamo la Luce Originaria
Ma le cose
le disintegriamo
le annientiamo
con la durezza del cuore
E nella pienezza della tenebra
che dedico alle cose ferite
questa fiamma immacolata.
Agli inizi
la fantasmagoria
sprigiona scintille
combinazioni complesse e fatue
Poi le ombre si scagliano con ferocia
e aggrediscono i corpi innocenti.
La morte laboriosa rigenera la vita lussureggiante
ed ardono le braci della sua luminosa potenza
Quando si ricolma di furia barbarica,
la morte, miete come folgore dal cielo
Ma il mondo rinasce
germoglia
cresce
e a dismisura si manifesta
Alla fine il poeta mormora:
“Gaudens obibant”
e si assopisce nel tepore meridiano.
Come eri soffusa e cadenzata
come il sole ti lambiva
e ti raccoglieva l’essere
preservandolo nei colori essenziali del mare
Come bilanciavi
le mensole zoomorfe nella luminosità
tra leoni demoniaci, piccioni famelici
elefanti stilofori dall’occhio dell’eterna fissità
La nudità stessa era elevata a meraviglia
E il rosone nel cerchio
dei tuoi divini animali
nella danza della mente
Ciò che si fregia di umana banalità
dovrebbe tremare davanti a tanta visione
Come eravate perfettamente equilibrati
tra le grandi finestre absidali
e gloriosa dalla tua rosa
scendeva la luce di Dio
Il terrore panico è la mia impotenza
la paralisi del cuore
il fuggire davanti al male per non poterlo evitare
Ma l’essere estatico
si sprigiona dalla semplicità delle tue volte
e che una specie degenere ti abbia concepito
è fonte di grande meraviglia
Lo stupore del tuo originare dal mare
il profumo dei prati asfodelici
che giunge sino alle tue pietre levigate
Le tue bestie di marmo smussato
consumate dagli elementi
ed evocatrici dell’Essere
E il radicale emergere della potenza di Dio
Raramente a uno è dato tanto manifestarsi:
che non alberghi in me il pensiero del male.
Se uno comprende
i giochi dell’ego si libera
gli si frantuma il mondo tra le mani
e diventa luce
se si proietta oltre l’instabilità
muore nell’autentico balenio
gli si sfilaccia la terra nel cuore
l’essere si eternalizza e diviene evanescente
E’ ben poco direte:
è una questione di gusti
Questa gente non vede non ha occhi
poiché la luce è un gioco
di riflessi interiori
Si è costretti a vagare nel fuoco
Questa gente non vede
Anche uno spettro ha un suo essere
di labile consistenza.
Quando fondano
il baldacchino delle loro certezze
sono ridicoli
sono nei tentacoli dell’apparenza
e credono che il monolito
resista e non si sfaldi
Ma il baldacchino è da secoli
costruito con cenere e polvere
Io veleggio verso la terra di Cippide:
il luogo ameno dei cipressi e dei fiori.
Il mio sentire è ferito
per quello che importa
L’uccellino morto
l’ho deposto ai piedi del Buddha.
Io vivo e sento
e il ricordo
lo porto
come un acuminato coltello
conficcato nel petto
Come un cilicio fastidioso
l’orrore resta con me
E’ cosa insigne
appartenere al reame del fuoco
essere fuori
dalla paciosa e plumbea ovvietà
Ascolta:
quando un passero
mi muore tra le mani
mi crolla un mondo.
Mentre lo copro tra le rose
brucio un bastoncino di incenso
per aiutare la sua scintilla a sollevarsi
dal karmico gioco
Neanche nato e si è già dissolto
nell’orrore dell’abbandono.
Il Samsara ci soffoca
e penso al loro dio misericordioso
divoratore di esseri.
Dice Luria:
la contrazione lo racchiude
si restringe nel profondo se stesso
nel ritrarsi concede uno spettro di luce
vi proietta le dieci emanazioni: i Sefirot
ma lo spazio non può contenerle
e la luce viene racchiusa in dieci vasi
differenziati:
i primi tre contengono luce incorrotta
gli altri sette un misto di residui luminosi
che sono le impurità cadute che lo offuscano
l’equilibrio originale contiene l’Essere
tutto è contenuto nel silenzio primordiale
tutto è armoniosamente per attimi bilanciato
tutto per istanti riposa nel grembo dell’Essere
ma la forza della luce fa esplodere i vasi e li stritola
si disseminano le scintille divine per ogni dove
i corpi diventano le loro prigioni
le cose i loro sepolcri
e le scintille soffrono la grande deiezione dell’esilio
sono sottoposte alla potenza demoniaca
dopo la catastrofe della caduta
tutto si separa
tutto è suggellato dalla morte
si struttura il mondo
l’urlo del creato lo senti nel cuore
la Luce Originale si cela
ciò che è manifesto e ciò che non è manifesto si separano
l’uomo si degrada nel cuore nero delle tenebre
la Shekinhà è esiliata
da luce della luce diventa un languido pallore vagante nel vuoto.
Chi libererà le scintille imprigionate?
Chi renderà libera la luce sepolta?
Chi ricostruirà l’unità primordiale?
Un uomo immane
appare
dice:
è possibile invertire
il corso delle stelle
inviate bimbi macellati
come messaggeri
agli dei
affinché il ciclo del tempo
sia mutato.
E quando dicono:
il corso del tempo
non può essere variato
il grande Inca
edifica l’impero
Ora brucia il luogo profetico.
Ora cade il condor che muore.
Ora rotola la testa che parla tra le pietre ed i fiori.
Le cose giungono a compimento
Il ponte delle stelle è reciso
Il Lama scende e non beve
Mi sono eclissato nella materia
Sono sceso nel gorgo delle cose.
Ora le vergini del sole non sono
Si è dissolta la casa del mattino.
90 Orinano
nei gambali arrugginiti
Solitari predoni
giungono mentre il ponte delle stelle è reciso
E scalpitano argentee scintille
Il lama si allontana
e per i volti di cuoio
è strumento di fato
Ora giunge l’inferno
delle croci
e dei teschi rosicchiati
Il dio liquido barbuto è giunto
Si è scisso il ponte delle stelle
Il dio fuggente e’ tornato
Hanno bruciato il luogo dell’evento profetico
Tempo – spazio hanno mutato
Ma le cose giungono a compimento
Tintinna la ferraglia dei centauri
Il ponte delle stelle è reciso
I templi del dio morto
hanno edificato
sulle ossa livide
dell’esausto Pachamac
Almeno
la vostra natura non la invertite
rimanete fedeli
alle origini
non deviate
non divenite
sede di abominio
Poiché la coscienza,
forse, e’ questo:
un luogo fondamentale
per il mercanteggiare dell’anima
tra i raccoglitori di reliquie
quello che non svendi
è la luce interiore
E di nuovo nel bosco malavitoso
avviene lo stupro dell’Essere
nello scenario apocalittico
la dea dalla povertà aristocratica
nuovamente incontra il leone
Ora, l’uomo si scompone nella
maledizione
si riapre la città medioevale
con la sua prospettiva bislacca
si determina un mondo
di precisione e distacco
una polis triste, atomizzata
con un nucleo di notte
forse questo è il luogo
del Dio senza nome
Il mio cuore
è simile ad “un muro solitario”
è una nuda ombra
in una sera piovosa
E osserva,
retrospettivamente,
un mondo chiuso
dalla classicità devastata
una terra di brume
che appare e dispare
e che appena matura
nella stabilità della terra
si dissolve nel lucore
in questa singolarità
le figure mimetiche dell’Essere
confusamente danzano
Il nulla è integralmente
vincolato al linguaggio del mondo
alle parole lacere della defunta saggezza
del giorno
Nel tempo la mesta
oracolarità degli dei morti
diviene strumento egemonico
di nudo illimitato potere
come una lama affilata
sugli esseri
Al fine di evitare
inconcepibili confusioni
dovrei sistematicamente
tentare di esporre ciò che appare
e che propriamente non è
ma quello che sento è una foschia
come una mancanza cancellata
come un’esposizione
di un astratto pensiero
di fumo e di nebbia
che polverizza le ossa
Nel centro della luminosità
ascosa dell’Essere
il Signore -dicono-
concede e riprende
e tutto si dissolve
nel suo abisso silenzioso
Così sarà.
Il gattino trovato
sul ponte di Figline
gioca con la luce dei fiori
ma una cosa è certa
questo demone verde
della mente
origina da una fonte inaridita
ed ha il volto di un vecchio
maciullato dalle cose
Figlio di nobile stirpe,
qui, io canto
ed in questo luogo
in questa singolarità
si situa il dio morto
Bertham
si schiantò le cervella
nella sala degli Orti
davanti all’angelo d’oro
e scrisse: “non tollero il dolore del mondo”
Bertham
si dissolse l’essere
nella sala degli Orti
perché non tollerava
il dolore del mondo
si polverizzò la coscienza
davanti all’angelo d’oro
Bertham
non tollerò
l’abisso del mondo
e lo seppellirono nudo
nell’umida terra
presso la quercia secolare
i suoi figli cantano
i suoi terribili canti
sotto l’albero maestoso
il vento scuote
le fronde
e il suo spirito si agita
e pare che rivolti la terra
Akhum
distrusse il cacciatore
che aveva ucciso il suo gatto
lo inseguì
tra le crete e le dune
tra le foreste
ed i fiumi del mondo
con una rabbia furiosa
nel corpo
lo trovò
in una fosca radura
che distruggeva
con l’arma
le tortore
Akhum
sfondò il petto al cacciatore
che distrusse il suo gatto e le tortore
e disse: “questo è per l’estinta innocenza”
Gli troncò la testa
che offrì alla natura ferita
Ora è in carcere Akhum
e sussurra al suo gatto
che intravede
nelle notti di luna
e ricorda piangendo
Bertham
e il dolore del mondo
E giunse nel tempo
come un lacero mendicante
come un “ladro della notte”.
La luce penetrò attraverso la grande
finestra
attraverso i pulviscoli
gli arconi raggiunsero il cuore
degli uomini
Questa idea della luce
se la porta nel cuore
tumultuoso
il sole indivisibile
lo segue
nel crollante meriggio
sul colle delle luci spente
il sole lo insegue
nello scenario metafisico
del chiarore crepuscolare
e del fuoco morente.
Esce dalle quinte del teatrino
dell’apparenza
troppo vicino
ai centri del potere contaminante
la materia gli dicono
è luce è “intelligenza sopita”
non ci sta
comincia ad odorare di crollo
di muffa e di edera
e si avvia verso il suo compimento
tra le foglie di fiamma
d’uno splendido autunno
nella solitudine
ritorna nel cerchio degli essenti
ma non si stabilizza
nel cerchio dei vivi
in un senso è già morto
metafisicamente disfatto
esposto al vento
della grande miseria
giunge il dolore
alla fine recupera
parzialmente se stesso
cercando tra i meandri
del tempo
e la gatta amorosamente
lo culla
La bestia
giunge dal cerchio dell’orrore
giunge ferita
alle soglie della casa
della luce
l’uomo triste
emerge
dalla casa della luce
e raccoglie la bestia
che è fuggita dal cerchio dell’orrore
lo spirito dai capelli di fiamma bacia
l’animale ferito sugli occhi dolorosi
l’essere stanco non crede
di aver raggiunto la soglia del chiarore
di aver penetrato il territorio solare
degli angeli e del dolore
piccoli esseri
si raccolgono amorosamente
intorno a lei
l’itinerario mostruoso
è concluso
la cullano
gli spiriti della luce
Lo sguardo degli angeli
si posa
su ciò che è inutile e vinto
e intimamente lo esalta
l’amore degli angeli
sfiora con le dita di luce
quello che vive piegato
dalla necessità
ma gli angeli non possono cambiare il destino
l’amore degli angeli è pura, dolorosa impotenza
il flusso del destino procede
e si piegano sotto il suo peso
anche se il plumbeo fardello
in un senso neanche li sfiora
acuminati dal dolore
albergano nella luce dell’ignoto Iddio
mentre l’essente
nel cerchio dell’esistere
si dissolve nel terreno
della precarietà e dell’inane
Essi dall’invisibile osservano
e non sono osservati
mentre pesa sugli esseri
la micidiale solitudine
dell’esistere
il silenzio delle cose
sempre esposti alle tempeste del mondo
a volte
soggiornano
per attimi
nel centro del sacro
quando le cose
armoniosamente
si bilanciano
Lo spirito dai capelli di fiamma
bacia la bestia ferita
sui tristissimi occhi
in quel luogo
inesorabilmente
si situa
il trono incandescente
dell’ignoto Iddio
Rovinare
nel buco nero del destino
sprofondare nella pesantezza
del giorno
e dissolvere, inutilmente,
le solari energie dell’anima
questo in fondo
è il concetto della caduta
Il mai poter raggiungere
la luce originaria
è il senso della caduta
il disperdersi
nei mille ruscelli dell’ovvio
è la natura della caduta
Mai sollevare lo sguardo
verso le stelle
ma verso le cose
mostruosamente edificate
da una specie trionfante e derelitta
e’ l’essenza della caduta
Alla fine
rientrano
in queste terre
tra le teste mozzate
e le cantilene
degli angeli
e nel mistico silenzio
del cuore
trovano la luce
penetrando i tuoi vespri
tra tremebonde cogitazioni
la tua lastra tombale
li inonda di luce
il tempo evolve la sua nenia
Esplode la tua croce
nel mezzo dell’ Auschwitz animale
colpita dal bagliore
del mistero della vergogna
Solo e unico
Nell’universo solo e unico
e le sfumature dell’alba
salutano il macello
tra i salici
Santi raccapriccianti
danzarono
in tuo onore
quella notte
cantando la magnificenza tua
nell’apoteosi del sangue
Giove
è questo sfaldarsi lentamente
questo frantumarsi in miriadi
di centri vorticosi
che sollevano
la rossa terra
dal buco tossico
emerge un nuovo Iddio
gocciolante di rugiada
emerge
col chiudersi del secolo
il figlio del lucore
L’immagine forte
si placa
esce dal cieco interstizio
del mondo
inondato dallo splendore
dei biondi capelli
e chiede
Lucrezia è viva?
gli rispondono:
Lucrezia è cenere
è turbolenza sepolta
Espone la testa
nella caligine interiore
e copula
mentalmente con la cenere
nell’abisso oscuro
degli occhi
copula
con il ventre molle
della terra
La luce si schiude
emerge dal sogno
dal suolo umido
di Marengo
intriso di sangue
Ora, il Weltgeist
procede
tramutato
in bianco cavallo
poiché
il cavaliere è il vuoto
è l’umana inconsistenza
dissolta nel nulla
Dopo la battaglia
sempre l’odore
dei morti
tra i suoi santi
San Giuliano
in brache rosa
che con accenti pomposi
profetizza
la devastazione del mondo
un angelo ingobbito
lo conforta
gli tocca la spalla
con profonda ambiguità
con malcelato languore
E lo cela
lo distoglie
dalla cura del mondo
placandolo
dissolvendolo
nella luce divina
che è poi l’essenza al neon
di una perversa eternità
Esseri floreali
con il volto umano
che cresce su fusti
coperti
di muschio
perciò radicati
nella terra
ondeggiano
paradossalmente
su un mare di scomposte
deità
che si infrange
come onde schiumose
contro una spiaggia tenebrosa
Serafini sgargianti
tra le forme marmoree
e il silenzio degli uomini
è questo vagare
eterno
nell’interiore del cuore
questo perdersi
nel labirinto del caso
che è poi un perambulare
nelle sere di pioggia
in una disfatta città.
Teste di fiamma
selvagge
creature della luce
e dell’abbandono
neanche lontanamente discusse
come forme di esistenza
collaterali alle essenze angeliche
esseri che danno e tolgono
e non conoscono la morte
esseri di fiamma e cenere
di profonda ambiguità.
Un telamone gobbo
che sostiene
il peso di porfido
del mondo
si è assiso sul rosso leone
Spazi magici
violati dagli uomini
e dal vivere insalubre
Il cuore è lontano
Il cicaleccio non può raggiungerti
non può penetrare
si infrange, si perde
in queste amenità.
Senza lamenti
ora
giunge
ben contenuto
malgrado
il rumore del mondo
l’esser suo è fuori
e non ritorna
è fuori
dalla terra
e clamorosamente è in lei
Scheletri piumati
coricati
tra vergini
in questa lussuriosa
città
che magica non è
ma flaccidamente
squallida
appesantita nell’anima
da questo bislacco
benessere
E gli dei tuoi
sconvolti
quasi dissolti
nella luce diafana
nell’epifania di un’eclisse
tenebrosa
armoniosamente bilanciata
da una erompente luminosità
che mostra l’inconsistenza del divino
Il tempo presente e passato
si fonde con la precarietà
del futuro
nel presente dell’attimo
l’organicità del tempo
raggiunge il compimento
si direbbe
che nella caducità
i tre momenti si fondono
in una rara consistenza
che di fatto è esterna
al tempo stesso
Ricapitoliamo:
Gli dei tuoi sono parte
del tuo procedere
del tuo dispiegarti
sono forme
della tua mano benedicente
e il tuo benedire
è conforme
all’ombra minacciosa del destino
Ma sei fuori da lui
e non sei Dio
sei ciò che contiene
il destino, gli dei e la terra.
E saresti l’Essere in un senso
ma neanche l’Essere sei
e non so definirti
come era impossibile
sulla cresta delle montagne
occidentali, al vecchio,
a cavalcioni sul bufalo,
definire la “via”
Qualcosa che è grande
accetta la sua finitudine
accetta il suo inglorioso non essere
trascina il proprio esistere
tra i meandri di fango
nella densa oscurità
o nella luce involuta
Mi chiede un amore sviscerato
questa necessita’ di autoaffermarsi
di cristallizzarsi nell’eterno
e ti porta a questo zuccherato altruismo
a questo amore mielato degli altri
che ha fondamento nelle viscere oscure
della falsità
Sento una profonda pietà per le cose
meglio uscire da questa bassa stratosfera
poiché è difficile intuire la natura del dolore del mondo
tra i tuoi archi azzurri
nel pieno della finitudine
nelle terre cosparse di foschia
ascolto le prime parole emergere
districarsi dalla solidità dell’essere primordiale
posso solo dire
di questa beata avventura,
a tratti, l’instabilità ti placa e disegna un mondo
Ed anche questa meditazione sulle cose
si avvicina ad un’alba indescrivibile
le cose germogliano da un fondo luminoso – oscuro
emergono come maldestramente date
per me sorgono dalla caduta
ma non so qualificarle
L’esagerazione dei tempi le ha coperte
con un velo muscoso
con una patina maleodorante di morte
Le cose, giustamente,
nell’età della tecnica non sono più.
La meraviglia radicale ti strappa dalle ossa
Essere è questo apparire nella luminosità del sole
Infine, recidi la meraviglia
calandoti nel labirinto del mondo
ti perdi e non ritorni
nello stato primordiale
dell’apparire delle cose.
E come è difficile
portare alla luce questa
prima intuizione,
qui tutto scivola
nella indicibile banalità
e ti è rimasto poco
di quel primiero sentire
ora guardi il cielo
come se fosse una cosa
vecchia e stanca
se la pietà verso le cose viene meno
procedi verso l’innominabile abisso
Nell’ordine del tempo
come si insinuarono
nel tuo essere le voci
e tra le montagne innevate
ti salutarono le statue di sale
Peregrinare per le vie del mondo
richiede uno sforzo sovrumano
attraversare foreste e valicare
picchi ventosi, ove albergano
gli esseri fantastici della mancanza
e della primordiale solitudine
richiede la speciale attenzione
obliterata dalla civiltà della tecnica
quando riposi dopo l’angoscioso
perambulare, dal tuo ventre,
dalle tue budella verdastre
appare il Cristo distrutto;
da sotto il velo nero
emerge il conquistatore del mondo
La molteplicità dei tuoi esseri
si infrange
contro la barriera dell’orrore
si agitano nel terreno della pura innocenza
ti scrutano con gli occhi luminosi
ma non puoi preservarli
dal terrore del mondo
questo è l’indicibile cruccio
e quando spirano tra le tue braccia
nulla puoi fare
poiché nei margini della finitudine
non esistono spazi per l’agire salvifico
fuggi la fama, scegli l’esistenza più sola
Mi sono distratto
le pernacchie – weltgeist della storia
ti scuotono come una marionetta
nel teatrino del mondo
e sovrastano, almeno in apparenza,
lo sfolgorio germogliante delle cose
tramutano questo silente fiorire,
che è come il presentarsi
epifanico dei fiori,
in una poltiglia luminosa di fango e rugiada
poiché una minima luce è preservata
Esseri dell’abbandono
Arlecchini dell’Essere
cresciuti perversamente
nella profonda cecità.
Il tempo all’inizio
e’ un lineare susseguirsi
di punti senza finalità,
più tardi evolve nell’escaton
della finalità assoluta
e dopo il cambiamento radicale
ha luogo l’esplosione di Dio
il corpo è il buco di Dio
lo spiraglio del tempo
il corpo è dove le cose avvengono
è l’aprirsi, è il punto focale
ove si esterna, si concretizza
il massacratore, il ladro oscuro della notte
Cercheremo di migliorare
ma in questa vita è tardi.
Il cielo si è aperto
e da questa massa scura del castello
non proviene neanche una parola
immoto davanti a me
da settecento anni
non genera un verso,
invece questa bestia brutalmente trattata
genera versi, genera sacre parole
e questo sterminato campo
di girasoli
che si apre verso il nero maniero,
nella sua incontaminata bellezza,
diventerà la poltiglia – dono
per questi uomini dimoranti e perduti
nella menzogna dell’età della tecnica
Questo ho visto
con gli occhi interiori
ed ho cercato la pace
nella miseria della mia povertà
che nasca in te
la forza della vendetta,
possa te, intuendo il significato
delle cose esprimerti alto
con levigate parole
riscattando il dire bisunto
che come uno spettro
si agita nella notte
del meccanismo del mondo
Ma ti è crollato sulle spalle
un universo di atti
ti sei piegato
con somma rabbia alle ragioni del mondo
che dissolvono il silenzio
e brutalizzano l’anima
e non ti fanno più essere
e sei rimasto nella solitudine delle tue bestie
sulla vetta assolata
Una storica via:
tra le tue pietre si sovrappone
un volto austero e triste
su quello gioioso della bestia
questo ho provato
e non so narrarlo
ma nell’interiorità della tua pace
ho trovato la mia casa dimonica.
E a loro è dato un corpo
come essere
i trionfatori si muovono
nei limiti del momento
coloro che gestiscono le cose
sono egemoni nel mondo
e sono la forma malnata
dell’intelletto perverso
Tutto ciò che si esprime nel trionfo
è la cosa più bassa che l’Essere
ha deposto nella luce
E questo posso dire:
le cose neanche mi scalfiscono
ed amo gli esseri emergenti
dal tripudio della luce
ma la compassione sfocia in odio:
e detesto
sino a volerli distrutti
gli oppressori del mondo.
Quello che dico non conta
è l’assoluta futilità
questa lumaca che attraversa la strada
la raccolgo
prima
che la civiltà della tecnica
la dissolva
e la riconduca alla notte
primordiale
Tra me e loro
esiste l’abisso del silenzio
non c’è nulla che io possa
minimamente trasmettere.
Chi vince nel mondo
si esprime nella spirituale povertà
dell’essere trionfante e finito
E’ solo dei mendicanti dell’anima lo straordinario ed inutile regno
E sei giunto ad esprimerti
nel nulla della Eckartiana miseria,
in questa tarda età,
sperando che il ribollire egotico
fosse consumato
ma ha radici profonde
E esisterai soltanto
quando tutto quello che è parte
della depravazione dell’anima
sarà obliterato
quando nulla più saprai dire
allora, e solo allora,
nascerà il supremo momento
E dice
è iniziato il disincanto
ben venga il tuo disprezzo
poiché non vuole
non desidera il manto del maestro
nulla desidera
se non una minima pace
un raccogliersi inconcludente
nell’angolo muscoso del cuore
questa è l’essenza del suo esistere
a tutti incomprensibile
e con che disperata pazienza
sopporta la violenza dell’uomo
Questo intuisci o ricorda
l’essere si frantuma,
si disintegra
e giunge la grande ora
Nel buio dell’esaltata immagine
sono come un fugace tormento
il mio essere saetta tra la teoria delle statue
ciò che è immobile ha grande nobiltà
ma sfrecciare come tempo è il destino dell’essere
E il destino è anche il piccolo essere
che la dea della misericordia mi porta
avvolto in un bucato lenzuolo
Ora, la notte degli dei
sprofonda,
la grande notte discende sul cicaleccio
dei morti occidentali
e pesa questa individualità scialba
che cerca e ha la pretesa,
di sfociare nel divino
le tue parole sono massi,
e cerchi di smussare
tanta rozza umanità
rendendoti pietra levigata
E’ un inganno
manca la meraviglia nel tuo incedere
l’ebbrezza dell’esser – qui,
mentre questi pagliacci epocali
si agitano sul palcoscenico
purpureo della storia
ascolta: come la peste evita la gloria
i riconoscimenti magniloquenti degli uomini
incredibilmente ti hanno offerto una ciotola di acqua
ora sei qui, nel silenzio della stanza diroccata
e sei nel mondo una luminosa ferita,
un sanguinare di luce sull’erba contaminata
come un Re trafitto dalla lancia del Graal
E come possono le cose consigliarti?
Le cose sono tue.
Nell’eccezionale molteplicità
sono gli essenti dilaniati,
che appartengono alle coorti dei vinti
Ascolta:
E’ meglio per il distruttore acquietarsi
poiché non troverà spazi
L’essere tirannico si sgretola,
si definisce nell’inaudita violenza.
Da quanto tempo non ti avevo ascoltato
ora lo spiazzo celeste
provoca l’apertura del cuore
attraverso l’angosciante tremore
conduce all’abbandono
e l’abbandono porta all’apertura luminosa
e l’apertura scioglie l’animo impietrito
Hai condotto il tuo essere per
letali battaglie sostenendo la vita
ora ti giungono nel grembo
come nel giorno del giudizio
il falco pellegrino, il corvo imperiale
ed il lupo glorioso.
Ascolta:
tutto l’essere
prova l’errabonda ferita
la lacerazione dell’invisibile carne
lo scaturire del sangue purpureo
tutto l’essere
sente il ferro invisibile
che scava nelle vicinanze
del cuore
Queste cose feriscono
sono come schegge nell’anima
la brutalità ti investe
Devi portare a termine questa opera
arrivare al cuore delle cose
Un itinerario lento
condotto con estremo stoicismo
e per i vivi – morti nessuna pietà
Come hai sofferto nel silenzio
hai sofferto
e mai
una voce che si levasse
dall’azzurro del mare
o dai veli della pioggia
o dai luoghi degli angeli
ed ora allarmate le cose ti procedono
anzi si serrano dolorosamente intorno a te
Tra le secolari querce discendi
tra i faggeti, tra gli olmi
tra i pini maestosi coronati da brume
procedi
Ti dico: questo mondo
è nel profondo tarlato
ed è grande rifugio la morte
nella possibilità estrema
del dolce svanire
del giusto disintegrarsi,
è ovvio dimorare
e contemplare il giglio,
il pino d’Aleppo, i tigli, gli olmi, i cipressi slanciati.
Ascolta:
nel loro essere caduco,
stabile è giusto riposare.
Ed era un’immagine forte
come se Dio l’avesse segnata
con il suo dito di fiamma:
eri come un uccello con le ali mozzate
nella cantina d’un pazzo
un essere che evolve in una
dolorosa inutilità.
Il mio sentire è vago
e non sono figlio del cielo
Le cose appassionatamente le avvicino
ed entro nel cuore della loro
relativa insignificanza
Se senti un urgente bisogno di comprensione
ascoltami:
lascia precipitare nell’abisso il tuo tempo
che si dissolva nell’infinita misericordia
che si disintegri nella terra dei morti
Dopo un eterno vagare
Odisseo non ritorna da Euridice
ma presso il bianco cipresso
La suprema intelligenza
è la pienezza del vuoto
ma si fa per dire,
sono cose incomprensibili,
come levigare la pietra
smussare le scorie,
ed infine trasformarsi
nell’essenza delle cose
O come rimuginare il vortice,
dopo gli scossoni micidiali del tempo,
recuperando la ragione.
Ora tutto procede
nella dimensione del vivere – morto.
Ma forse, potresti, tra i residui del mondo
narrare la tua visione interiore,
trasmettere il tuo straccio- pensiero
o potresti enunciarlo senza magniloquenza,
senza pietosi ghirigori alle cose del mondo.
Ora, sei tornato
tra tanta miseria interiore
come in un quartiere devastato
di una degradata città
Sei tornato titubante nella fragile tenebra
Ascolta,
lascia dire,
la donna barbuta di Triers
è ancora col boccale di birra
affacciata all’infiorato davanzale
e contempla l’umbratile mondo
Ogni notte
questa gatta si stringe a me
ed è la protezione degli angeli
e non c’è potere d’inferno
che possa infierire
contro questi sacri animali.
Non c’è potere che attacchi
nell’ombra
quando la luminosità della bestia
è presente nello spazio del tempo.
Essa giunge dal dolore
dall’abbandono
dall’Essere totalmente rigettato
e consegnato alla morte.
Almeno, ricordo,
l’ho estratta
con mani tremanti
dalla nullità della città vergognosa
l’ho strappata all’oblio
e dopo molto vagare
l’ho restituita
alla luce del giorno.
Posso umilmente chiedere,
escludendo le ossessioni del tempo
delucidazioni sul flusso esorbitante,
proteico della vita?
Ora, la memoria è il ricordo tumefatto
della fatiscente torre accarezzata dal vento
Ecco perché hai dimorato in questi luoghi.
Ecco perché non hai scelto altre patrie
tra gli sconvolgimenti del secolo
Forse, la grandezza
è subire in eterno
il tradimento
ma non è mendace,
illusorio vivere la solitudine della terra
Alla fine sei giunto,
con l’armatura ammaccata
e neanche un sussurro
saluta il tuo tremulo incedere
Ora, questo è il mondo
dell’Atman miracoloso
dell’io profondo
dei re del Dahomey
di Adandozan che svanisce nel nulla
ma Amos dice:
le case di avorio crolleranno
Meglio per te nasconderti tra le cose minute.
Meglio albergare tra le cose esigue
escluse dai palazzi di avorio
Ora, questo è il mondo
delle spente fiabe
e della fortezza di Elmira
bianca e splendente
indifferente al proprio male
e dei tetri forti della tratta degli uomini
Tu puoi trovarti
nella solitudine più estrema
come una roccia in un mare azzurro
o come un’isola desertica
bruciata dal vento e dal sole
in un oceano di tenebre
Ma sappi che questo è il mondo degli Ashanti,
degli Agasouvì
di Kusanì, ricolma di oro e intrisa di sangue,
di Ganviè che fugge
come una Venezia lussureggiante di foglie
Oppure,
puoi trovarti
con una purulenta
ferita sotto la corazza
arrugginita e ammaccata
dai colpi del tempo e degli uomini
Ora, questo è il mondo delle farfalle
della luce splendente
della luminosità diafana e declinante,
dell’oscuro di Buchenwald
Ascolta: questa ferita feroce
la puoi curare
con estrema tenerezza
puoi cullarla,
sino alla chiusura del secolo,
come un neonato
avvolto in candide fasce
Ricorda, ricorda sempre:
tra i dirupi del tuo sentire
si nascondono le cose
la dimensione tua è quella del fuoco
ed è un processo maestoso, di fiamma
Ma questo mondo non so cosa sia:
l’io profondo è tra lo sciame di voci
tra le vele lacerate dal vento
e naviga l’oceano della perenne turbolenza
e non so quando giungerà,
e se mai giungerà, ai i prati asfodelici
questo io non conosco,
questo non posso
umanamente
dirlo.
Tutto si lacera,
Angelo mio,
hai sconquassato il mondo
sei tornato con le labbra dipinte di rosso
le guance imbrattate dal belletto
ed avevi occhi di ghiaccio
Eri chiuso in una tristezza infinita
di brume e di nordiche nebbie
che ricolma il cranio
di angoscia
Ora, sei giunto sulla vetta azzurra
ed hai accumulato tra le palpebre
l’originaria nefandezza
di ciò che nasce e si annienta
Ti sei inchinato davanti alle cose
teneramente le hai osservate
e al centauro verde
sul picco cristallino
che rinunziò all’eternità
hai ingiunto:
“Scocca il dardo che ricadrà sulla terra”
E il dio, figlio di Crono,
per soggiogarti al nulla
ti mostra gli occhi
della bestia ferita.
E l’essere immortale
grida contro lo scempio
della croce sui monti.
Ma un bimbo terzomondista
ti dipinse con le tremule mani
la barba violacea,
lo zoccolo verde
figlio di Filiria,
due laceri orsacchiotti di pezza,
ha posto il piccolo
per curare
l’ala ferita dell’angelo
Il simulacro è vuoto
rimbomba il bronzeo petto di Zeus
il cuore della rosa
è pura vacuità.
Ecco che vaga
nel terreno fondamentale
ma il grande fuoco,
figlio di Crono,
si spegne
è di grande pietà
il tuo sentire
Ma non è vero
che tutti danzano sull’abisso
l’abisso è loro
e già fermamente li contiene.
Come consolasti il patire d’inverno,
figlia mia.
Ora sei sotto un tumulo di pietre
cosparso di rose
E non c’è stato amore più grande.
Le tue fusa
curarono l’angoscia glaciale
preservando la vita nel fondo della notte.
Ed eravate
così,
amatissime bestie,
sospese
tra la lungimiranza del vero dire
e gli accadimenti del secolo
E mai nessuno che ascoltasse
la voce di ciò
che raccoglie le cose
Ma il mondo divenne
un satanico bisbigliare
un brulicante disturbo
intorno al silenzio delle cose.
Il mondo masticava il reale come un demone meridiano.
Poi giunsi al tuo luogo recondito
nella quiete del ventre oscuro
E vagai tra le nuove parole
mi spinsi verso l’Essere
attraverso il tuo esistere perituro.
Ma le cose riposano nella luce
Il tuo incedere è un vacillare tra dimensioni ostruite
o un fluire tra sovrabbondanti ricordi
Sono come varchi le tue tentazioni
Come fessure che si aprono e si richiudono
Il mondo interiore si disintegra
e passa attraverso il brivido della notte.
Ed occorre l’autunno
per avvicinarti, terra,
occorrono le meraviglie della luce
nella stanza ottenebrata
Ti vezzeggia il poeta, terra
ti adula
Ma necessita il silenzio,
la pesante tristezza,
la leggerezza delle cose
Esseri tutti,
nella dimensione del sacro
vi chiudete
ed è un santo inganno
Eccoti, terra, nella luce diafana,
Chirone ti saluta
e rinuncia all’immortalità.
Ma la sua via è la fiamma
e attraverso la fiamma ritorni
e senza la caligine oscura
ma i frantumi non si ricompongono in lui
non funziona così
la dinamica dell’Essere
Nel crocevia tenebroso:
un minimo di controllo
o le cose saranno destabilizzate.
Esseri dissonanti,
Le cose vanno cullate
poiché nulla le preserva
nell’estendersi
nello svilupparsi del mondo
Brulicano gli esseri nei loro
polverosi formicolai
Ora,
dicono, che il Dio dei poeti
è ciò che alacremente preserva
poiché la potenza del sacro è questo perenne
edificare e distruggere
Ecco l’inganno, l’illusione
della mente prigioniera.
Anche il rapporto
con questo orsacchiotto di cenci
va radicalmente ripensato.
Nomadi chiuse
senza contatto tra di loro
le stanze che attraversano in questo
bisunto castello,
sontuosamente arredato,
è un labirintico vuoto
Ma quest’essere disarticolato
che si manifesta
poderosamente
ha il suo fascino
E non una parola d’amore
poiché la compassione è svanita
dalla terra
E quanto disperato patire
il tempo delle vane chiacchiere
è divenuto signore.
La sera mi sono estratto
dalle macerie dell’anima
per perambulare in un parco violaceo
ma la storia si contorce, ominidi,
si dilunga, si riforma
e ciò che è sepolto e deriso
stranamente riappare.
Figli del terribile
gli umani vi hanno tumefatto il volto
colpendovi con il loro male banale
Certo la vostra grandezza è offuscata.
Ora nel tempio, sfavillante di oro e di argento,
nel “Sancta sanctorum” della derelizione
appare l’angelo del Signore.
Si.
L’angelo della luce è giunto
ma non attenderlo trasfuso
da scintillanti colori
L’angelo della luce è giunto
e si staglia dalla tenebra
dall’ombra più nera
e sussurra:
“Forgia nell’ira il fuoco della misericordia”
L’angelo della luce
ha descritto
l’itinerario nefasto
di caligine e cenere.
Ha osservato, bestie,
l’immensa razionalità del vostro vivere
poiché senza maschere esistete
e siete essenzialmente voi stessi
Ha assorbito l’eterno ritorno del vostro esistere
L’angelo della luce è giunto
ma non attenderlo
nella veste merlettata
L’angelo della luce mormora:
“Nel rumore di questa immane
mistificazione
lascia germogliare dal fango il fiore
della misericordia”
La sera mi sono estratto
dalle macerie dell’anima
ma non c’è un essere
in questo opaco mondo
a cui possa cantare questo salmo.
Quando rientrai
dalla nube
speravo che si levasse
il vento
La finestra romanica
dell’abside
era ricolma di oscuro
Sul monte si stagliava
il diroccato castello
Questa grandezza
è incomprensibile
a colui che esprime il tempo
con passo cadenzato
Figli miei,
la notte si conclude
o ci inghiotte.
Ma non fare
che raccogliendo il mondo
io cresca in maniera disgiunta
o che raccogliendo
l’erba, i fiori
e gli animali selvaggi
divenga uno scomposto vagare
e che tutto si sviluppi in un ignobile gioco
Fa che io torni
al tempo dei tuoi
innati germogli
che torni
nello spazio concavo
della tua luce tormentata
prima che questo
eterno pellegrinare
mi riduca in brandelli
e che il vento
disperda la mia inutile cenere.
Andiamo
dove ci conduce
il nostro demone:
due anitre discendono
sul fiume solitario
una gazza spicca il volo.
Perché tanta tristezza sulla terra?
Siamo bolle di sapone
negli spazi siderali
pulviscoli in un infinito
che infinito non è.
Era parte
della serenità
e del gran gioco
era parte
delle fiamme
da dove emerge
il fiore di loto.
Ora,
convinto dalla prudenza
si è invaghito dell’ombra.
Il divino è inquietante,
colline fumanti di bruma,
il cipresso solitario si staglia
dal crinale del monte.
Questo è il mio sermone del fuoco.
Io,
tutto raccolgo
e vi ho protetto,
cose,
con la luce
sghimbescia della mente.
Ma non so definire
questo bizzarro sentire
che è come la coscienza
di un vecchio giocattolo
cresciuta a dismisura.
Ho appreso il rispetto
per l’inanimato
attraverso il dolore.
Non è giusto
eternamente
oscillare
nella lucentezza.
Non è giusto
perdersi
nell’oscuro
ricolmo
di tempesta
Non è giusto
estraniarsi
e svanire
nell’opaco
bagliore dell’Oltre.
Sopraffatto dalla meraviglia
della misericordia
che cresce dal nulla
osserva il ciliegio in fiore
torturato dal gelido vento
Il libro dei morti si sviluppa
sul crinale dei monti
cresce tra nuvole e tempeste.
Cerca di capire l’enigma delle cose:
dietro la facciata dei monti
non c’è una sostanza invisibile
dietro i monti c’è altra materia.
Ciò che appare
non è escrescenza dell’invisibile
è semplicemente quello che è.
L’erba vi coprì
con la sua commiserazione
e a quel punto
la malevolenza
contro le cose
si chetò
la malevolenza
contro le cose,
arcanamente,
si chetò.
La grande liberazione
attraverso l’udire
è ascoltare,
annidato nel vuoto,
il sommesso frusciare
delle fronde.
Ma io ti troverò
sulla strada alta
verso il bosco di castagno
tra i detriti dei morti
e tra i rimasugli asfodelici
o ti riesumerò dalla terra
per consegnarti
alla luce del giorno.
Questo luogo
è la mia prigione
che detesto
con tutto il mio essere.
Nel giorno
della morte di Basho
il ciliegio fiorì.
Il ciliegio è fiorito,
gente, ora vago
tra i cespugli di ginestra
e tra i lecci.
Ma da quando
abito la nefandezza
di cose costruite
dal desiderio di morte?
Sono lì, stralunato,
sul balcone,
con il gatto affacciato
sul davanzale infiorato
mentre tutto
sprofonda nell’abisso.
Il tempo
ci ha dissolto l’anima,
bestie mie,
ci ha lasciato
appollaiati sul vuoto
ora basta,
poniamo fine allo strazio
e procediamo insieme
verso il luogo di Atena Pronaia
Gli uomini
hanno scatenato
la loro perfidia sulla terra
e puoi cantarne
l’immane nefandezza
o esserne stroncato.
Abbiamo raggiunto
la fonte Castalia
e simultaneamente
la grande fabbrica abbandonata:
un tripudio barocco
di ferro arrugginito e contorto.
Bestie mie,
Il mondo è un’oscillazione
in un’eterna mancanza.
Ma procediamo
verso le rupi Feriadi,
verso le “risplendenti”,
che riempirono di panico
il nemico persiano.
Sullo scenario desolato
del tempo
l’intuizione profonda
è comprendere
che siamo escrescenze
germogliate sul vuoto.
Bestie mie,
ascoltate:
la purezza originaria
non sarà mai scalfita.
L’imbarazzante vaniloquio
dei mestatori
del meticciato italiota
ferisce la mente.
Spazi immensi di silenzio
sulla superficie brumosa
che cela altri mondi
L’angoscia,
nella solitudine intensa
si trasforma
in una gioia peculiare.
Bestie mie,
il tempo ci ha corrotti,
ci ha stravolti
l’immensa proliferazione di cose 9;
e ci siamo dissolti
tra la molteplicità
degli esseri
si è annientato lo spirito
Siamo abbandonati
nella grande miseria
perché, dicono,
che sia coperto
il volto di Dio
brancoliamo nel buio
dell’apparenza,
bestie mie,
procediamo verso
l’oscuro
della grande afflizione.
E’ successo di tutto:
ho sentito sul mio
capo levigato
la brezza soave del vento
l’attesa eterna
ci disintegra,
bestie mie,
il drago bicefalo
che mastica i cuori
germoglia dal fuoco
Il quel tempo,
Brassida discese
i lacedemoni
sradicarono le viti
e troncarono gli ulivi
Il quel tempo
gli ateniesi
bandirono Anassagora
dai luoghi di Pallade Atena.
La vita è così, bestie mie:
il Giuda- Eterno
scuote i calzari,
e come Socrate dice:
“Non sono maestro di nessuno”
Ma io aggiungerei:
“Lascialo vivere il gallo nero
di Esculapio
non sacrificare arieti
agli dei inferi
abbandona le immonde nekye”
Nell’attimo del trapasso,
Il mondo si sfaldò,
si disintegrò in un vortice nero.
La vita gli mulinò intorno
come un mosaico scomposto.
La sua individualità si disperdeva
nella notte vorticosa.
Il turbine era pieno di stelle
che apparivano e si scomponevano
e sembravano generate dal vortice.
Le cose si riordinavano
intorno ad un centro che centro non era.
Uno straccio di coscienza
confuso,
disarticolato
esperiva la tempesta del trapasso.
Il suo ego si dilatava
e si contraeva nella maniera più strana.
Il mulinare vorticoso continuò
per un tempo indefinito
che tempo non era.
La ferita sanguinante dell’anima
si cauterizzava con il fuoco.
Era afflitto da un senso di incertezza
e di completo spaesamento.
La coscienza sembrava sfilacciarsi:
era come se la gioia e il dolore
si manifestassero simultaneamente.
Un’esperienza confusa che germogliava
sul terreno arido di un ego evanescente,
che si dissolveva nella notte infinita.
Questo tentativo di simbiosi
con l’oscuro
comportava un sentimento estatico,
che fondeva il senso del dolore,
della mancanza,
in un sentimento di pienezza e di amore,
come se micidiali estremi
si congiungessero in un centro consunto.
Qualcosa roteava
verso un ipotetico “alto”,
come un tornado capovolto
che non travolge le cose della terra
ma si dirige verso le stelle.
Gli sembrava che le immagini,
i frammenti delle disintegrate visioni,
fossero l’individualità stessa,
e che il centro pensante
fosse pura apparenza,
una base precaria e illusoria,
un luogo di nubi.
Un odio cieco lo sconvolse:
uno stato di vorticosa confusione
in un roteare di visioni.
Era uno sfilacciato centro,
che esperiva
grande inquietudine e incertezza.
Un orgoglio violento
si impossessò del suo essere,
un rigurgito egotico
che voleva ad ogni costo
preservare la propria coscienza
e non accettava l’incontrollato dissolversi.
Poi lentamente il turbine si chetò.
Fu come deposto rumorosamente
su un arido terreno.
La coscienza si solidificò,
divenne integra
più lucida del suo stato terreno.
Un essere pennuto
apparve
e lo fissava
con grande commiserazione
ed aveva vicino due cani
con macchie nere sugli occhi,
che furiosamente latravano.
L’essere disse con voce gracchiante:
“Tu non sacrificherai
un gallo nero ad Esculapio,
ne un nero ariete
in una vergognosa “nekya”……”
e disse ancora:
“Vengo dalla terra
dei Cimmeri,
avvolta di nuvole e nebbia,
sono il tuo daimon
e sono contiguo alla luce….”
Tra le desolate macerie,
sotto un arco crollato,
una personificazione di qualcosa
cela il volto e si occulta nell’ombra.
Un aquila volteggiava bassa sul suo capo.
Qualcuno o qualcosa,
sommessamente, sussurra:
“E’ colui
che non vuole altari,
che non desidera sacrifici,
che non cerca nulla.
Non fissarlo
volgi la testa
è colui che tiene insieme le cose,
è il mistero del loro dissolversi
E’ colui che aggredisce l’apparenza
con violenza
egli è la sopraffazione
di ciò che decide di esistere…”
Improvvisamente,
una luminosità intensa
si concretizzò all’orizzonte
e lo raggiunse placandolo
Ora,
un piccolo tempio marmoreo
con due arcaiche “korai”
si solidificò da una nebbia lontana.
dice un maestro dell’Upanishad:
questo corpo finisce in cenere
Om! Potenza ricorda
Ricorda ciò che è stato compiuto
O potenza ricorda,
Ricorda ciò che è stato compiuto”
Poi
lentamente,
tutto ritornò a sfaldarsi
il vortice riprese a roteare
a comporre
a macinare
a disintegrare
immagini e visioni,
ora,
gli sembrava di discendere
in una caligine oscura
ora,
la sua coscienza,
nuovamente,
si disintegrava,
vorticavano
i suoi atti passati
nella ruota del fuoco
vedeva esseri copulanti
immagini di struggente bellezza
e indescrivibile orrore,
ora,
tutto si smantellava
si scomponeva nel turbine furioso.
Chi avrebbe detto
che ai limiti del tempo
saresti apparsa
con la corona di fiamme
in un angolo crepuscolare
di uno sbiadito giardino
nel luogo ove il leone
incontra la dea incoronata?
E chi avrebbe pensato
che tra gli ameni frammenti
tra i fiori amorevolmente
conservati
ti saresti manifestata
con i tuoi occhi di gatto
nella ferocia inaudita
della selva profonda?
Ma tutto si consuma nello spazio desolato
che contiene i nostri pensieri
e le epifanie tremende si sgretolano
nella sonnolenza del meriggio
come oziosi demoni meridiani
come nubi scomposte
dissolte dai venti.
7164 Uomini dal cranio emaciato
e dal volto macilento
la vostra deforme ragione
insozza la luce del sole.
Sono gli angeli
della Potenza
che vi visitano
nella deiezione,
squarciando il reale
con la lama di un rasoio
quando cercate uno sbocco
dal magma miasmatico
delle egotiche meditazioni
Gli angeli della Potenza
vi espongono alla luce del sole
alla baldoria della Luce iperfisica
vi scrutano e gridano:
“l’intensa commiserazione
conduce alle porte del Nulla”
Ma chi siete?
Da dove venite?
Giungete dalle terre coperte
dalla caligine afosa
o dal gelo d’inverno?
Giungete dalle terre
della vergogna e del mercimonio?
Chi siete?
Da dove venite?
Dove andavate
con il deserto
nel cuore
sospirando
nell’ultimo sole?
Il tempo greve,
giunge,
delle parole
che nulla significano
In questa solitudine
c’è un vetusto struggimento
un languore antico
che spinge all’oblio
Il silenzio sfuma l’orrore
del mondo, lo attenua
il silenzio è l’attesa
di una presenza epifanica
che mai si manifesta
Ti hanno occultato
nella ferita del marmo
o nel vulnus
della pietra
più oscura
ma non c’era un angelo luminoso
germogliante dalla tenebra
C’erano donne
in un eroico fermento
che agitavano mani tremanti
e scuotevano teste sconvolte.
Non c’erano angeli
annunciatori, fosforescenti,
cullati dalla serenità
Il bailamme degli uomini ottusi
seguì, edificando il baldacchino
del timore del nulla.
Ma non fu preceduto
dal balenio del fulmine
erompente dallo squarcio del marmo
ne dallo stagliarsi del figlio dell’uomo
nella luce.
Nulla si perde nel frastuono
Ecco:
ora conservi
l’ultima cosa del mondo
la preservi nella maniera più oscura.
Senza significato alcuno,
proteggi l’ultima cosa della terra
Tutto si perde
nello spazio desolato
che contiene i morti e i pensieri.
Madre oscura,
la speranza è il balenare del fulmine
che fugge e che viene.
Il tempo delle ottuse
parole è giunto.
Sul terreno
dell’allodola ferita
il tempo si è dissolto.
Dietro una nuvola violacea
il sole è esploso
come luce compassionevole.
Figlio mio,
ascolta: Il campo
è il luogo dell’anima
che contiene l’allodola,
l’allodola non contiene il campo.
Il mio cranio non imprigiona le nuvole,
le nuvole contengono il cranio
che contiene le allodole.
Le scelte della civiltà
della tecnica confondono,
vomitano il mondo trionfante
dei nati- morti.
Quando l’Angelo degli Ultimi Giorni
rotolerà il tappeto del firmamento
ritroveremo il ferreo anello di Anankè
tra le macerie del Tempo.
L’Imperatore di Giada
dice: ” In un punto dello Spazio- Tempo
le porte dell’Inferno e del Cielo
si sovrappongono
e diventano una.”
Nello Spazio- Tempo, dice
l’Imperatore di Giada,
non in un’arcana dimensione.
Il Re dei demoni scuote le fondamenta
della Signora Oscura.
Le penetra le budella
con un pene di fiamma
che sfonda le mutande
di seta e merletti.
Nella selva profonda
è tutto un pigolare,
uno squittire di sacro piacere,
un mormorio da sacro amplesso
Nella capanna desolata
il monaco ode
e tremebondo
suona il suo piffero.
“Abisso chiama Abisso”
Il Veggente preannuncia
le doglie del Messia.
ora, tenta, attraverso
atti teurgici,
di trasformarti in Gog
signore della terra di Magog,
sovrano di Mosoc e Tubal
ed ad asservirti al Trono della Gloria.
L’uomo rosso saltella
fa capriole
indica la via.
Ora, sei il Signore degli Ultimi Giorni
che giunge da settentrione,
dagli estremi confini del nord
dalle brume del male.
Il Signore Dio degli Eserciti dice:
“Ti farò andare e giungere
conficcherò uncini nelle tue mascelle
ti farò incedere con il tuo esercito
giungerai nel paese come l’uragano,
come una nube che avvolge la terra”
L’uomo rosso saltella,
sgambetta e indica i confini del mondo:
la terra è scossa
il sangue scorre:
Tulieries, Bassano, Cairo Montenotte, Dego,
Lodi, Millesimo, Mondovì, Rivoli,
Abukir, Piramidi, Damietta.
L’uomo fulvo incede:
fango e morte:
Marengo, Austerlitz, Durrestein, Ulma,
poi Jena.
A Jena, per magia,
diventi l’Anima del Mondo
che galoppa su un bianco destriero
e sei concentrato in un punto
che si irradia sulla terra
e la domina
L’uomo rosso saltella
rotola, danza
indica la via:
tuoni e fulmini,
corpi troncati
destrieri morenti:
terreni di sangue:
Friedland, Wagram, Borodino, Beredina:
l’uomo rosso si perde
Hanau, Lutzen, Parigi, Ligny,
l’uomo fulvo procede
a tentoni nella selva oscura.
Si è perso.
Le tue mascelle sanguinano
procedi verso la conclusione
messianica della Storia.
L’uomo rosso
crede di essere giunto
presso il monte di Meghiddo
ma è approdato
presso un luogo piovoso,
edificato sul fango,
e tu, Signore di Magog,
sovrano di Mosoc e di Tubal
sei trascinato per inganno
verso il declino e la morte.
L’uomo fulvo si è perso.
Aniyyel, il principe glorioso,
ti colpisce con verghe di fuoco,
ma le armi gli scudi, le targhe, le mazze,
le frecce, le lance, i giavellotti
non bruceranno per sette anni.
Qualcuno mormora:
Il Messia giungerà
“come un ladro nella notte”
quando nessuno lo attende
Il veggente morente
ascolta e dolorosamente
sussurra:
“Abisso chiama abisso”
Luce pallida
dal regno occidentale
Max corre
su un terreno di ghiaccio.
Queste parole ti giungono
da una torturata immaginazione
da una fantasia distorta
senza voce o sostanza
qualcosa,
crudelmente,
mi nega l’esistenza
mi ritiro tra le ombre
è la mia arcana,
dimonica natura
Stabilità è una parola vaga,
lo ripeto:
il terreno delle allodole
è l’anima
Recuperiamo la ragione:
la santità è il silenzio
immacolato dei boschi
Ade,
fratello di Zeus,
signore del Sottomondo
rifiuta altari e sacrifici,
vive nell’oscuro,
rifiuta contatti,
rigetta invocazioni.
La santità è il dissolversi nel silenzio.
Figlio mio,
evita il capriccio
la mielosa banalità
l’intenso, soffocante amore
evita le vuote parole
evita l’ubris,
che gli dei non perdonano.
Ricorda: gli uomini
hanno distrutto la terra:
cresci e fuggi
va per la tua strada.
Ricorda: tra le vette diafane
delle montagne occidentali
Lao Tze perse la via.
Discendevi
dalle altezze diafane
verso le azzurre montagne
verso la cupa estensione della terra
terra nera
sotto cieli tempestosi.
Hai scelto
una vita embrionica
come se Pallade Atena
si fosse incarnata
in una casalinga di Barletta
Una furia
devasta l’anima mia:
non sopporto
la sofferenza dei viventi,
ma ho visto angeli
danzare sul miasma.
Lasciati spiegare l’oscuro:
la tenebra è un’oscillazione
nel nulla
Tempo gelido,
fratello,
ho le palle congelate
e il cranio è una catapecchia
squassata dai venti
Il castello del Graal
ristagna nella desolazione
della mente
Una malevolenza totale
mi confronta:
la corazza è arrugginita
la spada è frantumata
il fiancale si è dissolto
ho perso la celata
Questa apparizione
gioca con le cose
come un gatto con un topo
è qui e non è qui
è in questo mondo
è nell’altro.
Gli occhi sono stanchi
di esperire l’antico maniero
I petali viola
del fiore oscuro
hanno il colore
delle tempeste del cielo.
Signora,
la ricerca è infinita
e senza scopo
lascia che mi lavi,
che sganci i ginocchietti,
che tolga gli spallacci,
che rimuova la panziera
e i cosciali,
che scuota i mutandoni tarlati
ove nidificano i vermi
le mie labbra sono
serrate da croste
la mia mente
è vacua, cupa,
evanescente
odoro di cipolla antica,
il mio pene è una lumaca intirizzita.
Lasciami riposare,
le mie ossa scricchiolano
l’elmetto è pieno di buchi
la cotta di maglia è arrugginita.
Sono come una cripta muscosa
ove penetra una luce esigua
gli uomini mi evitano,
fuggono via
temono il vento del Nulla
ma le bestie e gli angeli
si avvicinano
nelle notti nevose d’inverno
La ricerca è infinita,
Signora,
il Graal è occultato nella mente
Lasciami spiegare:
il castello si manifesta
e poi svanisce
nelle brume dell’alba,
la ricerca è un agitarsi nel Nulla
la ricerca è un aprirsi alla morte.
Mi svegliai
in una chiesa demolita
il castello e l’oscura signora
erano svaniti
un Cristo smussato
coperto di edera
pendeva da una
diroccata parete.
Nel sogno
la signora aveva detto:
Il Graal è nell’anima.
Ma io penso:
l’Angelo- Cristo di pietra
è nell’anima
come una tempesta di neve
che imperversa dalle nordiche steppe
Stavo roteando nel vuoto
la pervadente malevolenza
era diffusa come una fumosa foschia
Accarezzai il mio destriero,
allacciai i gambali e i cosciali,
e mi inchinai verso le cose del mondo
mi inchinai profondamente alla terra
Poi,
mi immersi
nella nebbia bianca
Mi mossi
dolorosamente,
verso la luce del Nord
mi spostai,
con infinita pazienza,
verso l’orizzonte scarlatto.
Acre vento
dalle terre saracene
il tuo corpo
è sottile, levigato,
la tua testa è di luce.
Il vento caldo
cura la mente evanescente.
Sogni dolci, sorella,
la foresta è nella mente,
o è esterna alla mente?
La mente è la foresta
che contiene la mente?
L’immagine è riflessa
su un vetro concavo,
la tua voce è distorta,
ci avviciniamo
al Regno dei Morti.
Il Re Pescatore è presente
con la sua eterna ferita
la lacerazione è uno squarcio profondo
nell’anima
Il tuo corpo
è imperituro,
sorella,
la tua testa
è di luce
Il Weltschmertz
mi rosicchia il cranio
come un sorcio affamato
il terreno è gelato:
Max saetta
sul Campo delle Allodole
inalo l’odore del fior nero
mentre contempli
lo scettro di giada.
Il tuo volto è torturato
dal piacere.
Non perseverare
nel desiderio di distruzione
ho allenato la mente
a sussistere senza passioni:
le passioni distraggono.
La ricerca
dell’Uomo di Luce
è altra cosa
gli opposti producono turbolenza
Ascolta: il terreno originale
è ad un centimetro
dalle tue candide natiche
o forse è solo un pulviscolo
della mia febbrile immaginazione
Nebbia nera,
sorella,
non ho visto
il sole per sette giorni
e il Pleroma è lontano.
Le sante donne
cinguettano,
si liquefanno il cervello
con il vociferare sommesso
sull’essenza di Dio.
Ma dio
è una parete
muscosa del sacro maniero,
nulla penetra nell’incommensurabile silenzio.
Pioggia leggera sulla terra desolata
le parole cadono come petali di rosa
sul sepolcro di un antico fanciullo
Attraverso la foschia
delle nobili intenzioni
e mi dirigo verso Thule
la terra che non è.
Conversare con idioti
è la mia gioia superna,
sorella, ascolta:
abbandoni un uomo
in una casupola fatiscente
e lui pensa che Dio
gli sussurri ingiunzioni
e questa copulazione con gli angeli
sfocia, inesorabilmente,
nel disfacimento della mente.
Risparmiami l’odioso cianciare dei santi
agisci secondo la natura originale:
solleva la tunica
mostra lo strabiliante deretano,
controlla il tuo demone interiore.
Nubi oscure,
sorella, il santo maniero
è obliterato, è offuscato da brume.
Ti ho succhiato i seni cadenti
come un infante mostruoso
che ha ritrovato la madre.
Il castello ottenebrato
oscilla nella mente
nulla resterà di queste pietre:
si gioca con fiamme caliginose
il vento mormora di inenarrabili orrori
Ti raschierò dalle pareti del cranio
la nozione deforme
della giusta retribuzione
e quando ti avrò scarnificato le ossa,
ti abbandonerò,
come uno tizzone ardente,
presso il convento dei Santi Innocenti.
Nembi oscuri,
selve mormoranti,
un braccio di marmo
si leva tra le fronde
un nevischio soffuso
discende sul corpo macellato
che esprime la passione del tempo.
Cirri maestosi di grigiore e di morte,
un uomo invoca la terra ed il sangue
e si erge sul monte il suo distorto Weltgeist.
Venti sferzanti,
Un uomo parla di una pallida madre
Un filo di fumo si leva
Ora, con l’elmo piumato
procedono oltre Thule,
verso Wewelsburg,
oltre la terza luna,
verso la terra dei ghiacci
Incedono verso il luogo
del tenebroso sapere
Signore del tempo,
la foresta è divenuta
un profondo tacere.
Ho lasciato cadere
l’ascia bipenne
sono oltre l’Oltre
Pietre levigate, uccelli gracchianti,
il tempo dell’ultima terra è giunto
Sono fuggito
dal vuoto sbadigliante
una volta, in me,
guizzava la vita,
che ora è remota.
Le manifestazioni epifaniche sconvolgono
Vi darò la definizione
di un luogo santo:
una bolgia dantesca
ove le fiamme ustionano meno.
Sono sceso negli interstizi del tempo:
i pensieri imbrattano la mente
infangano l’edificio barocco dell’anima
Il mondo dell’apparenza trema
Sono perso in questo spazio americano
da Sleepy Hollow
procedo verso Sheyboygan
da Manitowoc verso Sturgeon Bay.
a Devil’s Head un falco mi sfiora
Dai giorni del sontuoso splendore
qualcosa ho traghettato:
un volo di gabbiani
che rade le superfici
oscure delle acque.
Prima di partire
ho consultato gli oracoli.
A Lebadea mi sono immerso
nel buco nero
nell’atrio oscuro di Trofonio.
A Tebe ho ascoltato Apollo Ismeo
Ho bivaccato nel santuario di Anfiarao
A Dodona ho udito le fronde frusciare
Apollo Delfico ho evitato come la peste:
i suoi preti sono corrotti.
Poi sono partito.
Ho visitato il Boristene
ho raggiunto la Palude Meotide
Mi son spinto oltre
il territorio desertico dei Budini
Ho percorso le terre degli Issedoni,
dei Tauri, degli Agatirsi, dei Neuri,
degli Androfagi, dei Sauromani.
Ho vagabondato per le terre dei Persiani,
dei Medi, dei Saspiri e dei Colchi.
Ho contemplato l’eterna ubris
manifestarsi nell’umana follia
quando Serse ha flagellato l’Ellesponto.
Ma nessuno ha mai parlato di me.
Nella terra degli Etiopi
ho esperimentato il trapasso.
Alla maniera degli antichi
hanno disseccato
hanno coperto di gesso
e colorato con sfavillanti colori
il mio povero corpo.
Più tardi mi hanno infilato
in una trasparente colonna
ove sono rimasto immobile
per una relativa eternità
Ma le mura ferree non ho visto
ne le acque dello Stige
ne il Cocito che sfocia
nell’oscuro Acheronte
Cerbero non ho incontrato
ne Caronte
ne ho visitato
l’Elisio circondato da Lete,
ne i luoghi del Tartaro
contenuti dal Flegetonte
Ade non ho visto
dal volto oscurato
dal Nulla incombente
E nessuno ha mai parlato di me.
Bisogna discendere nell’abisso
per comprendere che i mortali
non conoscono aspettazioni messianiche.
Se le inventano. Se le sognano: questo si.
Immersi nella loro miseria
immaginano voci di silenzi sottili.
L’apparenza è un imbroglio letale
perché è vuota
non è un telone disteso
su una terra di fiaba
intravista in “aenigmate”
Le cose rotolano
dalla casupola di nuvole
non si manifestano come esplosioni
epifaniche.
Friggevo cipolle
e il terreno dell’Oltre
era oltre. O forse non c’era Oltre.
Ma come era potente
la visione
del gatto disteso
sul tavolo di noce
e della rosa,
illuminata
dal sole morente,
nel barattolo di latta.
Alla vita chiedevo
mezzo sigaro
una birra tedesca
una donna dissoluta e ruspante
ed un foglio
per riportare demenziali pensieri.
Ho raccolto un piccolo uccello
espulso dal nido
Ho raccolto le ultime vibrazioni
della esigua vita.
L’ho sepolto con onore
con l’impotenza del vile.
Ho cosparso il minuto sepolcro
con petali di rosa morente:
eppure potrei uccidere un uomo.
Come è stata amara e fugace la sua vita
ora la terra l’ha assorbito.
Queste piccole cose devastano.
Ti estraggono dal nero sepolcro dell’anima
per immergerti nella luce accecante del reale.
E gli occhi interiori
non reggono, si offuscano
e nell’oscuro della testa
tutto l’Essere grida,
si contorce,
spaventosamente si lamenta.
Ti dirò:
per il cranio mi è passata
l’esperienza dell’acqua traslucida
che accarezza l’anima e il corpo
con dita diafane, ora, invece,
un odore acre di morte
disintegra le narici.
Secoli amari questi:
forse, il tempo della Shekinà
è arrivato.
Forse l’ultima perversione
è giunta a compimento
Non immaginavo che la dea
della compassione infinita
si manifestasse come una casalinga
in una fottuta regione centrale
Ne pensavo che concedesse
grazie voluttuose
agitando natiche e bocca
in un letto disfatto.
Sorella ascolta:
alla fine del tempo
l’Angelo della Morte
ti concederà, per intensi momenti,
i pulviscoli luminosi, gli Atman,
degli esseri che hai salvato
e sarà il tuo tripudio di gloria.
Poi la notte incederà
poiché questo è il destino delle cose.
Ma ricorda:
non c’è cosa più grande
della compassione
che nulla chiede.
Non c’è cosa più grande
della misericordia che si erge
sul terreno del Nulla.
In quel tempo
mi ero dissolto
nel livore
della smemoratezza.
Era cupo
il mio incedere
e il deserto nicciano
avanzava.
Era andata a fottersi
la gaiezza di Dio.
Dicono che i santi
dimorino nella letizia
io, invece,
nell’involucro
di questa pesantezza
ci sguazzo
come un ratto
in un rivolo
di una fogna melmosa.
Anche nei sogni
la grandezza
ti è preclusa
ho atteso sei giorni per costruire una frase
ma mi hanno visitato
le presenze della notte
che hanno assimilato la volgarità
dell’esistere intenso.
Sono rimasto penzolante
nel vuoto
come un monaco,
senza fede,
che nel suo polveroso convento,
origlia presso la porta dell’Indicibile.
“Ecco giunge il sognatore
gettiamolo nella cisterna”
vivrà come una rana
in una pozzo che si prosciuga
mentre i limiti liquidi si restringono,
il sole arde e la pioggia non viene.
“Ecco giunge il sognatore
uccidiamolo,
vediamo a cosa servono i suoi sogni”
Questa casa
mirabilmente bilanciata
sotto il Castello del Graal
ti copre con la sua tenera ombra
montagne,
che non sono montagne,
la sovrastano
negli spazi violacei del cielo
si è aperto un varco
e tu, erroneamente, credi
che quella frattura di vuoto
sia una manifestazione epifanica
della divina meraviglia.
Max si agita,
scodinzola e corre
sulla terra devastata
Questa donna si concede
ma il mondo le ha succhiato il cervello
il corpo è integro,
forse è quello che importa,
ma nel suo cranio muscoso
alberga una noiosa nefandezza.
Uno si apre
all’opaca manifestazione del sole
ma per convergenti ragioni
non c’è pace sulla terra.
Il nulla è questa fluorescenza
di eventi vuoti,
questo rinnovarsi di fatti
cuciti insieme
come una rattoppata coperta
dall’ago solerte del Caso
Bisogna cambiare il mondo o estinguere la vita?
Diocristogesù,
in questa regione desertica
I demoni ti maciullano,
ti triturano, ti masticano il cuore.
Nell’italietta deforme
i demoni divengono
l’aria leggera che respiri,
diventano i pensieri meschini
che ti ronzano,
come mosconi petulanti,
nel cranio.
Tu credi che manomettendo le cose
sia possibile raggiungere l’estrema conoscenza?
Forse, è meglio volere
fortissimamente il bene,
accenderti un mezzo sigaro
e bere un bicchiere di Grappa
nelle ore morenti della sera.
Terra di verde soffuso,
di azzurro bruciato,
di brume e di male,
di arbusti e di fiori,
ho scarnificato le mie parole:
noi siamo crollati nell’ordine delle cose.
Noi siamo sprofondati nell’ordine arcigno delle cose.
Nell’attesa trepidante
davanti all’umiltà della terra
ballonzola la marionetta dogmatica
che a volte ha il volto cupo di Stalin,
a volte i tratti austeri di Pacelli.
Ascolta:
il sentiero di Oz,
verso Sud
conduce tra olivi,
campi di girasole e di grano,
tra lecci, tigli e querce
verso una mansione vuota
e fatiscente.
In fondo al sentiero illusorio di Oz
c’è una vuota mansione.
Ascolta:
la casa dell’Oltremondo è vuota.
Le cose sono vuote.
Il leprotto
che ho raccolto morente
svanisce nella luce meridiana
ho pensato alle cianfrusaglie cimiteriali
espressione di culti perversi
ai ventri marmorei delle fugaci virtù
ai volti dei cherubini corrotti da angeli ambigui
ho pensato alle madonne volgarizzate dal pagano sentire
ai Cristi risorti che stringono un cuore di marmo
alla Fede dalle cosce da sballo
alle metafisiche tette della gloriosa Speranza
ho pensato all’abbraccio isterico del corpo putrefacente
al misticismo sciatto traboccante di sessualità
che devasta le cose e tramuta la sua ombra in simmetrica ragione
ho pensato alla religiosità cialtrona che ha ideato le poleis oscene dei morti
alla preservazione dell’inutile involucro, rosicchiato dai ratti e divorato dai vermi,
che dicono, abbia un tempo contenuto la luce originale sepolta tra le scorie del mondo
piccola bestia,
ho pensato: nella tua principesca umiltà
hai più onore di questa stirpe degenere che avvelena la terra,
ho pensato: sei più nobile del tuo stesso creatore
“che, forse, non sa”.
Per tre volte si ferma
davanti al volto mummificato di Pio,
splendente nella sua futura impotenza,
e, bruciando un pezzo di lino, sussurra:
“Sancte Pater sic transit gloria mundi”
Poi giunge il tempo degli Ustascia e della Shoà
che avvolgerà lo sfarzo faraonico
con il silenzio vile,
con il pusillanime calcolo,
con la stolta malevolenza.
Più tardi
la santità si concretizza nel trapasso:
dal sarcofago sontuoso
un cupo dardeggiare di peti
e di violente eruttazioni
un odore pestilenziale si leva
e non è profumo di mammole
una guardia crolla
per il micidiale fetore
il volto austero è purpureo,
il naso aquilino,
divenuto colore dell’ebano, collassa
come quello di un iperuranico Pulcinella
Eh si… “Sancte Pater sic transit gloria mundi”
Il sentiero del mago di Oz,
verso Nord,
attraversa campi di avena,
di frumento, di orzo e di segale
si distende
salendo sui crinali dei monti
tra cipressi, abeti, pini, larici e ginepri
è sfiorato da bucaneve, ciclamini, genziana e fiordalisi
E quando scende tra valli ridenti
da margherite, mughetti, primule
ai lati osservano, increduli,
marmotte, istrici, conigli, topi, lepri e scoiattoli
il sentiero si snoda
tra boschi sacri e incontaminate foreste
e conduce presso un tempio
su un’altura di verde sfumato
presso un dorico tempio dalle colonne consunte,
dal frontone e la metope vuoti e divorati dal tempo
e su un piedistallo marmoreo
c’è un dio senza testa
ma vi spira il vento della misericordia infinita
Questo piccolo passero
destinato all’aria e alla luce
è finito nel tubo della fogna.
Nato per il volo
esilarante e leggero
ha trovato la morte
sprofondando
in un’olezzante oscurità:
questo è un mito platonico.
Quest’altro passero,
il primo giorno di volo,
ha esperito la luce diafana e l’aria leggera.
ed è finito nelle fauci del gatto:
questo anche è un mito platonico.
E quest’altro con l’ali imperfette
ha volato per giorni
intorno alla casa;
poi è venuto a morire davanti alla porta.
L’ho raccolto e protetto. Ma è morto:
anche questo è un mito platonico.
In quel tempo la pietà
mi strinse la gola
con le sue grinfie di ferro
e contemplavo i ratti
innocenti perambulare
nel grande giardino.
Come si è dissolto il centro,
noi sempre attendiamo
fino a quando ci rendiamo conto
che non c’è ragione di attendere
e allora attendiamo ancora di più.
Verso Ovest,
nel silenzio del sacro,
il sentiero del mago di Oz
si distende in un vorticare di nubi
tra brume e foreste
sale, discende e si perde
tra foschie millenarie
si delinea sui monti
e raggiunge una chiesa di pietra distrutta
ove un Cristo di legno errabondo
ha posato i suoi piedi
E negli occhi del Cristo
c’è il vuoto
il suo volto è divorato
dai tarli come un vecchio
Pinocchio abbandonato
la mano destra
con le dita mozzate
indica una murata finestra
e tra i ruderi
soffia una brezza gentile
Maledetto Teodosio:
è il settimo giorno del mese
l’uomo ha attraversato la Focide,
va verso l’ombelico del mondo
e procede tra i thesauroi
in un proliferare inaudito di stili
un’opulenza volgare
che rasenta un’ubris sfacciata
dopo la Prometeia
si purifica nell’acqua tralucente della fonte
poi giunge l’orrore del capretto sgozzato
l’innocente creatura, a contatto con l’acqua,
ha tremato: Febo è presente
Ora, l’uomo si immerge
in un oceano di oscuro,
le torce illuminano una scena vibrante:
intravede una donna agghindata,
in candidi abiti, traballante su un tripode.
Ora vede: la donna
è una vecchia scorbutica
che lo fissa fasciata dai fumi
del papavero anatolico
la Pizia è tra le grinfie di Apollo
farfuglia e rantola
“Di al Re:
i cortili di Febo sono crollati
i templi sono crollati
Febo non ha più la sua capanna
Non ha più l’alloro che indovina,
ne la fonte che parla.
Si è inaridita l’acqua profetica”
Ora l’Apostata legge
il delfico messaggio
si curva, si passa una mano
sulla fronte sudata e mormora:
“Maledetto Teodosio”.
E così andavo
per questa terra
inondata dal sole
e ho tribolato per anni.
E mai pioggia scrosciante
che lavi le incrostazioni dell’anima
L’oblio è questo sole che brucia.
Il sentiero di Oz,
si distende verso Est
tra depressioni desertiche
ed aride lande
attraversa palmeti,
paludi, canneti
e insalubri stagni
e raggiunge,
su un monte bruciato dal sole,
una triste moschea
di fango e terriccio
ove il nome di Allah
è cancellato dai muri
ma tra le pareti scrostate
si prova una frescura gioiosa
Gli steli dei girasoli
tagliati nei primi giorni di settembre
sembrano una falange distrutta.
Germogliano aste mozzate
nello sconforto della terra.
Ma c’è un essere
di nubi tempestose,
di chiaroscuri e frammenti
assorbito, congiunto alla luce del sole
che penetra tra sconnesse finestre
che filtra tra candide tende
che accarezza il davanzale infiorato
e dice, o Potenza, che c’è derelizione
nel centro delle cose,
che c’è contumacia nell’esistente
che c’è latitanza in ciò che esiste.
Il Tempo si manifesta, Potenza,
come presenza inerente
connessa al profondo delle cose
e interiormente le divora e le estingue.
Ora, che “ciò che è” sia affiorato
dal grembo del Nulla
o sia emerso dalla Luce Originale
e un quesito denso di brume e di nebbie.
Ma tu ti esprimi, esorbitante Potenza,
tra i picchi nevosi e tra la coltre di fango
mentre il Tempo, il tutto – divorante,
se così si può dire, si occulta.
Ma il Tempo è la giustizia intima
annidata nel cuore delle cose
e tu, Potenza, il tutto raccogliente.
Eppure,
questa luce,
radiosamente,
tutto sostiene
questa luce tutto,
misericordiosamente,
sostiene
questa luce
sorregge il mondo
e la sua sommessa amarezza
questa luce sostiene
il male e il bene del mondo.
Nella sommessa amarezza
del mondo
sguazza la follia
ma questa luce
sembra tutte le cose
sostenere.
Ma non vi ho intuito,
terre,
mentre procedevate
avvolte nel mantello di tenebre e brume
mentre la prua tagliava
i flussi del mare – Oceano
vi inoltravate, terre,
affondando in una gigantomachia di nuvole,
verso il mio uggioso sentire
Quanto ti ho venerato,
terra del Graal,
che proteggi nel grembo
i resti dissolti
di un’illusoria Atlantide
e come sarebbe giusto
dar vita alle immagini
vellutate della mente
e cantarti con la potenza del cuore.
Come si è incenerito
Il mio sentire davanti all’umiltà
delle tue povere cose
Ora soccorri, terra, l’eterno straniero
con l’essenziale povertà dei primordi
e non c’è compassione più grande
di questo vagare tra lande
afflitte da pioggia
bagnate da rugiada
e dall’acqua del cielo.
Ma tra me e loro non c’è più niente,
non c’è più mondo: ubique daemon.
Vi dirò: tra tutte le verità una è salda,
edificata su fondamenta di pietra:
contro inqualificabili nequizie
ci battiamo, non contro principati e potestà
ma contro una banalità mefitica
che ammorba l’aria e disintegra i mondi.
Quella notte mi rotolai
in un sogno infinito
e mi strinsi alle cose inanimate
tra tenebre.
Ma allo smascheramento giungeremo.
Le cose le avvicineremo nel silenzio,
nell’umiltà dell’attesa.
Questo “pastiche” metafisico
stracolmo di aneddoti e quisquilie,
è redatto dai seminatori del vento,
ti guida verso gli angoli marginali della mente,
mirabilmente descrive le memorie
dei prigionieri dell’apparenza,
travalica e trascende, con scoperte sagaci,
la visione granitica dell’era di ferro;
e sembra essere pervaso dall’instabilità del tempo
ma forse è solo gravido di Nulla: ubique daemon.
“Come sei caduto da lassù… figlio dell’Aurora
sei divenuto un lucore che balugina nella foschia
dell’abisso.
Una luce morente nella foscaggine del vacuo”.
Tempo gelido, sorella,
Max arcuato defeca,
corvi roteano sul terreno di ghiaccio
Albione è soffuso di nebbie.
Un bimbo dal ghigno satanico
sorride: Schleppfuss ha generato.
Ma non è giusto
dissimulare le immagini
abolire il volto dell’angelo ruggente
e necessiterebbe una Irene bizantina
per restaurare il culto infranto.
Siamo senza limiti e i centri
si sono sfaldati;
certo, è cosa misteriosa
questo conoscersi dai mille tentacoli
e alla fine dell’illusoria grandezza
trovare solo te ad ascoltare
come toccata da satanica grazia.
Nel pieno del tempo sei lì,
e nel centro dell’invisibilità
c’è un nucleo di luce misericordioso:
quello è il tuo volto
ai margini dello sfaldarsi della luce,
presso il lucore baluginante,
c’è un angelo di belluina potenza,
poiché gli angeli, dice il poeta,
sono tremendi.
Si, arcani questi angeli
edificati sulla potenza.
Ma il tuo angelo
agita il corpo
tra le tue cosce lucenti?
E cos’è il tuo angelo?
Ascolta:
il tempo della miseria è giunto
salviamo questa esigua luce:
questo ci è dato.
Figlia mia,
l’incesto giunge
quando sollevi l’elmo
e la ruggine penetra
la mente incontaminata
e quando con le dita affusolate
sciogli i corrosi cosciali
un bagliore di senso
raggiunge la coscienza ottenebrata
Pausania,
nella Pariegiesi,
descrive una decorazione di Polignoto,
nel sacro recinto di Delfi:
Eurynomo che divora i cadaveri
Nella luce olimpica e abbagliante
C’è un centro tenebroso.
Una presenza inquietante nella luce di Febo.
Oppure:
Polignoto ha dipinto,
dice Pausania nella Pariegesi,
Eurynomo divoratore di cadaveri,
e noi diciamo:
come una folle rappresentazione
del libro tibetano dei morti.
Nella tenebra compatta
fa capolino la luce olimpica.
Una presenza inquietante nella caligine del Nulla.
Ora lavami il volto consunto
e le fessure degli occhi.
E detergi,
figlia mia,
la mente incontaminata.
Ho roteato il cavallo e
mi sono diretto verso il crinale
tempestoso del monte,
l’ascia bipenne scuote
le cianfrusaglie di ferro.
Ti ho inchiodata sul piano
inclinato della Mente Originale
La caduca testa tra le cosce gloriose
ho insinuato
e ora sto alacremente lavorando.
Mi sono curvato verso il tuo mondo
ascolta: la paura disintegra l’anima,
non essere vile pensa
alle terribili convergenze.
Ora, orientandomi verso la morte
produco il tempo del grande viaggio
e per le terre desolate di gloria
ti conduco.
Il tuo braccio levigato ho contemplato
come l’icona di un santo.
Che strano vivere contenuto nei tuoi occhi.
Ma la madonna bizantina
mi ha ingannato con la sua immagine
ora voglio deporre il sacco di carne tumefatta
ai tuoi piedi,
voglio che tu diffonda le mie ceneri
nell’aria leggera e sussurri:
ritorna alla Luce Infinita
Sono appesantito dal tempo
sono un parto di una defunta immaginazione
sono una storia tetra di un cavaliere
senza fede che si perde nella ricerca del Graal.
Mi sono liquefatto nel Nulla
mi sono sciolto nella tenebra
ho roteato il cavallo,
tintinna la ferraglia,
galoppo stravolto
verso il crinale del monte.
La via lattea rotea
roteano i 200 miliardi di stelle
che contiene
E questa stupefacente galassia
rotea
tra 125 miliardi
di galassie che roteano
Rotea tutto
il mio cavallo
il mio mondo
i sogni ottusi
In mezzo a questa immensità
roteante
ci sono io
come un ferro arrugginito
e c’è la tua immagine nebulosa
In mezzo a questo girotondo di luce
ci sono io
come un carciofo
e il tuo splendido gatto
Follemente è un termine
eccessivo, sorella,
non si vagheggia così
un reprobo – ombra
E il mio è un poetare
da commedia dell’arte
E roba da varietà periferico
roba per checche meneghine
roba da scadente operetta
Il vero poetare
è un’altra cosa
è il frusciare delle fronde
nel grande silenzio,
non è la nevrosi collettiva dei saggi
lo so,
ti sei lasciata prendere da un frammento
di una degenerata immaginazione
è facile bruciare come una torcia
per vaghe ossessioni
Io, invece,
semplicemente
mi inginocchierei
all’altezza del tuo ventre
e piegherei la testa
in raccolta contrizione,
in intima eccitazione
e se poi tu distendessi le affusolate dita
verso questa fronte ricolma di merda
il tempo negherei
almeno non ci siamo prestati
alla macelleria del mondo
ma indenni
i campi di sterminio
non li abbiamo attraversati
nell’agglomerato osceno
brulicante di vita
ho fissato la luce del sole
ho rimpianto di non essere vero
ma solo un catorcio di ruggine
la mente originale
ha riempito il grande vuoto,
e ha risolto la frammentazione dell’anima
e la bellezza delle cose finite
Se la presenza non è necessaria
sublimiamo la mancanza
Ora ritorno dall’altra parte del tempo
e in questo stato senza immagine
di sovreccitazione
l’ispirazione giunge
Certo la tua cupezza si è smussata
Ho roteato il cavallo,
tutto rotea
te, il catorcio ferrato, il tuo cane
i naga, i sadhu, i raccoglitori di stronzi
del Kumbh Mela, ruota l’Uttar Pradesh
tutto rotea in un girotondo di luci
Pioggia scrosciante
fratello,
Max è intriso fino alle ossa
e si scuote.
L’angst è tornata
Ci si trovano bene
nel cantuccio kafkiano del castello
sommersi dai doveri, dalle necessità,
dalle speranze e dal futuro incombente,
sommersi da padri tremebondi,
e da amanti che elemosinano
concupiscenza e tenerezza
e donano in cambio
il deserto dell’anima.
In quella gabbia dorata
ci sguazzano
come dannati
in un lago merdoso
E non c’è nulla che puoi fare
perché quelle ramificazioni
hanno radici profonde.
Con l’anima sanno solo giocare,
senza risolutezza,
poiché sanno che gli angeli sono terribili.
Mi sono spremuto
come un limone,
come un idiota ho danzato
davanti ad una statua di sale
che comprende e non comprende
ma che intimamente
desidera la palude mefitica
delle cose piacevoli
Mi sono piegato
su me stesso
per cantare il nulla
e di questo sono maestro
Ora c’è un gran vuoto nella mia testa,
questa malevolenza
gioca con me come
un rapace con un topo
mi dona cose illusorie
e me le toglie
Il gioco della sublimazione ha un limite
siamo coperti di nervi e di carne
Questi esseri privi di concretezza
sono fantasmi benevoli
ai margini del mondo
giocarci troppo è un insulto
allo Spirito Santo
Ricordi il tempo delle scimmie
danzanti?
Mi sto eclissando
senza capire
che la speranza avvelena
l’uomo macchina diceva:
“tutto questo sarà perso
nel tempo come lacrime nella pioggia”
Pioggia scrosciante
Fratello,
l’itinerario nel vacuo
continua
gira il cavallo
precipita
nella foresta frusciante.
L’alba mi ha raggiunto
mi sono svegliato
e le ossa sono rotte
Max ronfa beato
tra le cianfrusaglie di ferro,
le lattine di birra consunte,
i sogni inani e le ottuse memorie;
il gatto Byron lo osserva spavaldo
con la lingua tra i denti
la luce originale è a un dito dai musi.
Qui,
ora,
c’è il giudizio dell’immagine che manca
c’è il giudizio divino sull’assenza
c’è l’ordalia delle supposizioni sulla voce disincarnata
c’è l’ordalia della voce smaterializzata
c’è l’ectoplasma pretrolinesco dell’era tatcheriana
non è male per un’ombra avere una voce:
una voce senza corpo è cosa eccezionale
e il balletto della sovreccitazione comincia:
c’è il teatrino dell’apparenza:
il timore di perdere il campo di ossa:
il tiepido tepore kafkiano
Tutto edifichiamo sull’apparenza
e sulla modulazione delle note
mentre altri cospirano nel mondo.
Ma io vorrei solo fuoriuscire dal mondo
La mia voce maschera
l’infinita diffidenza
e quello che scombussola l’interiore
non trasmette
Le maschere che porto
le adagio delicatamente sul volto
e non cerco ruoli predominanti
ne cerco egemonia sulle anime.
Ho bisogno di un ruolo di estrema marginalità
come Ade che nasconde il suo volto nel mondo ceruleo.
E’ meglio intombarsi nella normalità
per sfuggire all’orrore del tempo.
Ma, ora, anche la voce è vivisezionata
ed è sempre un eterno fuggire
Ho una natura proteica – camaleontica
ma la mia essenza è fissa
come l’essere parmideo;
è immobile e radicata
in un’infinita tristezza:
non contemplo le cose
sub specie aeternitatis
ma le percepisco
intrise di strazio e di tempo
le cianfrusaglie di ferro sono gli orrori
che trascino nella mente ferita
Nella notte sei apparsa
nella mente con le traslucide natiche
Pensavo al tuo volto di ninfetta partenope,
trasformato dall’angst, in una visione
manageriale del tempo berlusconide
con la tua gonna di seta
nel chiostro italiota.
Ascolta:
sono come la zattera del Buddha
una volta attraversato il fiume
devi abbandonarla nella corrente.
Ricorda: la Mente Originale è a un dito dal naso.
Gli esseri luminosi
nascondono la loro essenza
in una bonomia dolciastra
ma ogni stella morirà
come si spegnerà il sole.
Tra un miliardo di anni
la terra non sarà più abitabile.
Questo spazio,
senza te,
brucia
come le tue offese,
è un’estensione immensa
di vuoto.
L’essenza originale
si nasconde:
il dipinto è scolorito dal sole
le tinte forti hanno assunto colori diafani,
sfumati, attenuati:
grigio, celeste chiaro, violaceo smussato, rosa levigato,
crema pallido,
ma sul fondo il nero compatto del nulla
è rimasto come basilare background.
Dal fondo cupo
si staglia una santa di travolgente
bellezza.
E c’è un fanciullo dal volto arcigno
con una candela;
tutto è inghiottito da ghirigori funesti
come onde del mare.
A sinistra c’è un vecchio, che sembra
il motore primo, l’esplosione primordiale
del big – bang, avvolto in uno scolorito mantello,
osserva sconsolato l’io- narrante
che contempla:
in questo caso un metafisico lenone
Cosa dice il fanciullo a Dio?
Cosa indicano le dita affusolate la santa?
A destra
guerrieri normanni sembrano fondersi
nel maestoso capitello
di una colonna romanica.
I diluiti ghirigori imperversano.
Ora, la scena varia:
un re si affaccia su un balcone ceruleo
la santa è nuda contemplata da vecchi gaudenti
il lenone metafisico studia le immagini
ora, le scene si inseguono
precipitosamente:
destrieri irrompono
da una scarlatta finestra
soldati percuotono scudi
uomini si baciano appassionatamente sulla bocca
la santa è in una bara di vetro nera
una meretrice la contempla.
Dove sono?
Cosa cerco?
Dove vado?
Cosa dice il fanciullo al vecchio Dio?
Perché la santa tiene in mano un cuore?
Stavolta,
sul piano della mente originale
danza un lenone dantesco;
vi sorprenderà la sua castità
mentre subisce l’infamia del desiderio
irrisolto.
Una donna pakistana lo guarda:
che tristezza vacillare nel vuoto.
La Mente Originale si occulta:
ma mai comprenderete.
Torno da una tenzone
con una checca impiumata
Il cartoccio rantola echeggiando
mi ha ammaccato, con la mazza ferrata,
una spallaccia.
Mi sono fottuto la luce interiore.
Vado avanti ad intuizioni folgoranti
E i quadrati dolorosamente si accavallano:
ma che dice la santa al Jahvè – Pentateutico
mentre il Jahvè – Isaitico, sornione, ci guarda?
Quello è il Dio con il piccione sulla spalla
e con il figlio barbuto,
quello è il Dio degli agglomerati galattici
e delle innumerevoli stelle
quello è il Dio dei buchi neri
che ingoiano luce e materia.
E Sorride sornione al lenone fantastico.
La santa risorta
saltella con i seni rosati
la meretrice
la guarda e pensa:
la santità ha le sue sfumature,
in un bordello di Bosnia
queste donne beate
si realizzerebbero
con tatuati magnaccia.
Ma che dice la santa al fanciullo?
Guarda che con quella fottuta candela mi bruci.
Il fanciullo guarda il Jahvè – Deuteronomico
e sussurra: tutte uguali le femmine
Ora,
la santa fugge
la meretrice dal manto vermiglio la insegue
in una convulsione di luce e colori
i cavalieri normanni si fondono
con il soffitto intarsiato
e i ghirigori diventano tumultuosi marosi
Il re si affaccia dal balcone ceruleo
e chiede: ma che cazzo succede?
Gli risponde un guerriero dai capelli di fiamma:
Max ha inseguito lo scoiattolo Rocco
e ha montato un immondo casino
ha fottuto la luce interiore
ha appannato la meditazione del vuoto
Il Jahvè – Sapienziale sorride sornione:
ah gli umani e le bestie
li dovevo fottere dopo Sodoma e Gomorra
quando tentarono la sodomizzazione degli angeli.
O tempora o mores.
Max, nel frattempo,
ha annientato il Dharma del vuoto
e Yama si incazza.
Ci immoliamo davanti all’invisibilità:
non c’è limite alla nostra presunzione,
ma ci intendiamo di sostanze invisibili
e di ectoplasmi parlanti
Mi sono disunito
ci hanno carpito la luce interiore
L’universo è collassato
in una odissea indecorosa
procediamo verso il tempo
del miraggio
Rocco se ne strafotte
sospeso dal ramo
e osserva beffardo il clamore.
Il cartoccio echeggiando,
rantola,
gli hanno fottuto la luce interiore.
L’interiorità è una casa buia,
ci fai quello che vuoi
le frittelle con il miele
o ti masturbi con l’angst.
Ha attraversato il bosco sacro,
la santa, ha attraversato
la foresta di parole.
Questa ninfetta iperuranica
è qualcosa che pulsa compassione
I quadri orizzontali vacillano,
si agitano le tavolette verticali,
Il comic – strip della storia della santa
si dissolve risucchiato dal vuoto:
Il polittico diviene un vortice trascendente.
Analizziamo l’incorporeità
e la saldezza morale:
il lenone filosofico si spaventa.
Dal balcone ceruleo
sotto arcate pseudo – gotiche
il re si sfalda sotto l’impatto del tempo.
Il lenone con occhi di morbosa concupiscenza
contempla la santa.
Hanno solo una cosa conficcata nel cranio,
pensa l’arcigno fanciullo: la fica.
Nell’ultimo pannello del polittico,
per la gioia di perversi pedofili,
appaiono sovrannaturali putti
truccati come vecchie megere.
La meretrice studia i tarocchi
assorbita da una fluorescenza vegetale.
E c’è la mano d’un florealista armeno
in quel lavoro.
Il fuoco divino arde
tra colonnine filiformi:
la incorporeità si diletta in raffinate creazioni:
la possibilità dell’esistenza della materia vacilla.
Il lenone si piega davanti al ventre immacolato.
Una italianità degenere pesa sul tutto
come una cappa di piombo
Rocco,
disincantato, se ne strafotte
della grandezza monumentale
della vita e lascia cadere
gusci di noccioline
sul muso di Max.
Quel sorcio sublimato
me lo ingoio tutto intero.
Pensa il cane.
Con ritmi discendenti
I ghirigori si placano:
un saltimbanco è apparso
e si trascina una croce,
la composizione plastica si frammenta
in residui di forma
ci dissolviamo tra piccoli contrasti
nel colorismo deliziosamente
sbiadito dal sole.
Rocco svetta nello spazio
supremo: siamo violentati dall’invisibilità
Caselle rettangolari saltano,
il polittico si scorpora,
i pannelli si scontrano,
un ebete si affaccia da una finestra polifora.
E’ come una mandala
questo polittico della santa-mignotta,
il centro emana energie di profonda misericordia.
Ma siamo intrisi di Samsara:
la santa è come una bianca Gaurì che appare
nel tredicesimo giorno del Bardo.
Mi sono beccato una fottuta
mazzata sulla spalla
dalla checca impomatata:
sono stressato:
mi si è incrinato il Samantha
I gusci delle noccioline di Rocco
cadono sulla superficie immobile
del Volto Originale.
Essere è tremare
per lo scorrere del tempo?
La santa è ora su un cirro
circondata da podestà, da dominazioni,
da serafini, da fiammeggianti cherubini.
Ha le gambe accavallate,
e si fuma una sigaretta al mentolo.
Sotto un baldacchino sorretto
dagli angeli, su un basamento traslucido
di alabastro, si intravede
la consunta figura del Battista.
Il lenone metafisico si rivolge
al Jahvè – Sapienziale e chiede:
ora pure le mignotte
ascendono in cielo?
Il Padreterno,
il babbo del Cristogesù,
– per amore di chiarezza –
si gira incazzato e gli urla:
vuoi che ti stritolo quelle palle
da magnaccia teutonico?
Il lenone retrocede impaurito,
sfodera Giobbe e bisbiglia:
aborro me stesso e mi pento tra
polvere e cenere.
Ma la sua fede è radicata nella mutevolezza.
La prospettiva spaziale si dilata:
si dilata l’universo:
tondeggiano le forme
ogni movenza dei cavalieri
normanni diviene
un gioco di tenui colori:
una simbiosi di grazia e potenza.
Tutto si espande in infinite direzioni,
tutto procede verso la notte – non – notte
di uno oscuro indicibile.
Intagliatori gotici hanno lavorato duro
sul polittico e ci concedono lo splendore
sfasato di roseti e la meraviglia del gotico fiorito
che ricade sui destrieri e sugli angeli.
Ma c’è abbastanza gravità
per tenere insieme l’universo?
Si domanda il lenone metafisico.
Essenze dantesche si manifestano
e svaniscono come bolle di sapone.
La corporeità delle figure si sfalda:
è tutto un turbinare di cose e concetti.
Il re si sporge dal balcone ceruleo
e grida: che sta succedendo?
Tra smalti rossi e violacei
scoloriti dal tempo
gli risponde la megera Adelaide:
Max sta inseguendo la volpe Eleonora
e gli ha quasi fottuto la coda.
Dodici miliardi di anni fa non c’era nulla
Non c’erano cose, né spazio né tempo
La prospettiva si ristringe:
qualcuno sogna Thule ed Atilhia
e vescovi fusi nell’oro
dalla distanza del mare.
Il corpo della santa odora
di mammole e rose,
sbracata su una nuvola
e deposta l’aureola
si succhia uno spinello.
Il fanciullo che si staglia dal Nulla
Originale se la guarda beato e mormora:
ma che paio di tette.
Corrono via le galassie
La materia oscura non è sufficiente
per tenerle insieme.
Tutto fugge.
Il lenone si rivolge al Jahvè Isaitico:
ma perché hai prodotto quella patacca
primordiale, il big bang,
che è divenuta quisquilie e galassie?
Mi sono slacciato i cosciali
E mi domando:
nell’ invisibilità c’è un nucleo solido?
Materia e antimateria si affrontano
come nella lotta primiera degli angeli:
ecco spiegati gli dei olimpici trionfanti.
Rocco se la ride beato e snocciola noccioline.
Stò topo glorificato me lo pappo.
Pensa Max e si lecca i baffi.
Il re chiede: che sta facendo la Roma?
un soldato normanno risponde:
ha segnato Battistuta.
Si stropiccia le mani, il monarca.
Fica, Ferrari e calcio in quei crani di merda,
pensa il Jahvè – Duteronomico
bisognerebbe annientarli tutti.
Santi assurdi fiancheggiano
l’iperuranica mignotta:
Ambrogio, Bartolomeo, Girolamo,
e un beato con un flagello di fiamma.
Il Jahvè Geremiaco risalta luminoso
con il suo manto di stelle.
La megera è ora in tunica rosa.
L’energia diventa radiazione
e si costituisce in apparenza.
Il lenone domanda: ma che c’è oltre
le galassie che fuggono roteando?
Il Jahvè Abacuchiano sussurra:
ma quante cose vuol sapere
stò magnaccia del cazzo?.
Dolci cadenze di ghirigori stressati
Giovanni e Paolo escono da una porta
che si apre sul Nulla.
L’estasi bizantina è superata
l’oro di Dio è trasceso ed è
divenuto un lussureggiante giardino.
Max abbaia.
Tutto si sperde.
Tutto si spegne.
La gravità non regge le cose.
L’universo dilatandosi sfugge.
In un livello di eccessiva dispersione
mentale fogliami fiammeggianti
si esaltano in una morbidezza pittorica
che conferma la sapienza dei santi
Robuste tonalità sfumate dal tempo,
appaiono.
Si manifestano santoni incazzati
con barbe ricciute.
Un tripudio, uno sfarzo di paramenti
tra volti esangui di sante.
Qualcuno con una frusta si è flagellato il culo,
che tristezza questo Agostino invecchiato:
Max piscia contro il tronco di un albero.
La Vispa Teresa si è persa nel Sacro Bosco.
Mi si è ottenebrata la mente e ho aggiustato la celata.
L’universo si dilata e si espande.
Mi sono accovacciato in un angolo buio dell’anima.
La santa – troia ride.
In quella leggerezza ilare ho trovato
la mia casa.
La sera ho intuito
l’umiltà delle cose
tra la fessura del tempo
che produce l’occaso:
nel silenzio, le cose,
si curvano.
E tu non sai
che flettendoti, come un arco,
mi strappi dalle tenebre
E neanche puoi immaginare
in che baratro di solitudine
un essere possa precipitare
e come quella solitudine
sia sfiorata dalle ali fruscianti
della morte.
Quando la luce giunge,
con il tuonare di luminose trombe,
il lenone metafisico si inchina
davanti al rosone cantato dal tempo
si piega umilmente verso
la facciata maestosa e coerente,
un portale sbalorditivo lo investe
arabeschi traforati, invasi da basilischi,
lo salutano nella nitida luce dell’alba.
Ora mormora:
oh l’arcano poetare zoomorfo
tra fregi e lunette
e i leoni stilofori di porfido
che divorano l’uomo e il torello!
Bisogna che mi spieghi:
il Westwerk è il baluardo
verso i demoni
oscillanti da Occidente:
la santità è ora visibile:
sotto il balzo stupefacente
dell’arcone gotico
si manifesta la santa – mignotta
da ogni esperienza della vacuità
sbuca sempre con le sue chiappe rosate
un’epifania di bellezza:
i seni sono offerti
con le mani tremanti
i glutei sobri, solidi,
non adornati
sono, misericordiosamente,
concessi.
La prospettiva e la spaziosità
si curvano:
L’universo ha tredici miliardi di anni.
La mente impazzita si placa.
La santa sorride
il lenone retrocede e si inchina come
un cavaliere settecentesco
e spazza la terra con un immaginario,
piumato cappello
Ma si,
rivalutiamo la corporeità
e affrontiamo la mancanza:
sfoderando Isaia
il lenone sussurra:
tu hai liberato l’anima mia
dall’abisso divorante
Nell’archivolto del portale
intrecci vegetali e geometrici
avviluppano un bestiario fantastico.
Mi sono soffiato il naso
con la una logora
soprammanica di crespo
ho raccolto usbergo,
spada e scudo
ho dato di sprone al cavallo
che soffia dalle frogie,
volteggia e caracolla
tra un miliardo di anni
il sole rantolante
renderà la terra
un infuocato deserto
Rocco snocciola,
immemore,
noccioline.
Max lo punta.
Sto brancolando nella nefandezza
Sono assorbito dalla caligine oscura:
sono inghiottito dalla foresta ovattata
di nebbia
Angeli di Dio,
davanti alla vacuità
mi sono stremato
mi si è ottenebrata la Luce Essenziale.
Ma il soffio del nulla vi ha plasmato
siete fuoriusciti da un luogo tenebroso
Che meraviglia:
eravate acquattati nella simmetria
della luce solare.
Eravate una manifestazione dell’Essere
che germoglia dalla notte profonda.
Eravate acqua limpida
per l’anima assetata.
E il verde smeraldo dell’erba:
un’epifania di colori
un tappeto per l’anima
Mi sono inginocchiato davanti
alla tua tomba di pietre sconnesse
e c’era un lenone genuflesso.
Un gatto bianco attraversava
un rettangolo di luce.
Il lenone mormorava:
Verso la fede è impossibile oscillare
l’Essere ha un cuor nero.
Una creatura disperata si inventa
una casa platonica,
un retroterra luminoso,
ove possa impunemente sguazzare:
i buoi iperuranici di Senofane
gli dei biondi dei Traci
gli dei neri degli Etiopi
se i dinosauri avessero raggiunto
un livello di maggiore coscienza
avrebbero concepito
un perfetto, onniscente,
onnipotente, iperfisico
dinosauro fatto di brume e lucore.
Una specie egemone
si arrabatta con
il suo confuso pensiero:
inventa un mondo.
E l’universo si espande.
Procediamo con ordine:
assorbivano luce gli occhi
dello straniero: è sacro essere
investiti dal potere del suo canto;
ora, con il cavallo imbrigliato
in una bardatura lacera,
caracolla per le terre
dell’esiguo splendore.
Mentre Rocco snocciola noccioline
un cavaliere fasciato di tenebra
avanza, lancia in resta,
dalla foscaggine fumosa.
Max ulula.
Mi sono assiso
sulla gualdrappa stroncata:
inchinati davanti al mio corpo piagato
apri la palandrana derelitta
L’apparenza è intrisa di nefandezza?
I demoni meridiani hanno conquistato lo spazio interiore?
La mente non si placa?
Procediamo verso Kyoto e oltre l’Oltre.
Un ruolo grande
per te ho immaginato
quando le bronzee porte
del tuo sentire si spalancano
alla meraviglia dell’Essere.
Ho sentito il tempo nelle ossa
parla agli uomini
ma nessuno lo ascolta.
E com’eri armoniosamente
bilanciato nella simmetria
delle ombre, sotto la tigre
di cartapesta, presso
la grande Mandala
della terra desolata
La tenebra ti avvolgeva
come un vellutato mantello.
Come,
solertemente,
verso te
le cose
si piegavano
nella pesante penombra
E il ferro ammaccato dall’arma.
Il volto che affonda nell’oscura tristezza.
L’elmo piumato.
Come si curvavano le cose verso te.
Con che cura, intorno a te, si raccoglievano.
Ora procedo:
sono ai limiti
della cupa foresta;
ora,
assorbo la grande spiaggia
battuta dai venti;
il mare grigio assorbo
e il saettare dei gabbiani.
Figlio di nobile stirpe
il tuo respiro si arresta
e pervieni alla luminosità
fondamentale del primo bardo:
Si compie lo spazio vuoto,
luminoso della Pura Mente
Dove sono passato?
Attraverso cosa sono transitato?
Perché il centro si dilata?
Perché si disgrega e si disunisce?
Perché si diffonde, si dirada?
Perché non raccoglie più le cose?
E’ un Heruka furioso?
Non è un Heruka furioso?
Il nucleo si sfoltisce,
si discioglie: l’ego divampa,
si incenerisce.
Tutto si risolve in un vortice.
Ed è tutto un tintinnare
di ferraglie.
Il cavaliere nero
erompe dalla foschia
lancia in resta:
uno scatenato galoppo.
Perché animula, tremula, vagula, pallidula, nudula
il nucleo si dipana, si sfoltisce, si dissolve?
Perché il centro si dirada, si ramifica
si smaglia, si sfilaccia,
luce chiara della notte,
perché tutto si allontana?
E perché fuggono le galassie?
E dove vanno le galassie?
E’ luce accecante la tenebra?
E’ notte gelida?
E’ infinita, improbabile tristezza?
Figlio di nobile stirpe la notte scende.
Rocco miracolosamente bilanciato,
su un sottilissimo ramo,
lascia cadere un guscio di nocciolina
sulla testa canuta del Jahvè Pantateutico.
Jahvè sorride e da quel sorriso sgorgano tenebre
e luce coatta.
Max si gratta.
Il lenone ride.
Non sono.
Sono.
Sarò.
Non sarò.
Ero?
Non più.
Non più.
Mai più.
Mai.
Fine.
28.2.2001 ore 11.15